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GIORNO 3 - "LE ANIME DI VUKOVAR"

CULTURA E SPETTACOLO - 28 08 2015 -

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BELGRADO - VUKOVAR "Qui le cose cambiano veramente in fretta, un giorno va tutto bene e il giorno dopo può scoppiare un'altra guerra. Spero che non succeda, ma non ho paura, in caso, partirò. Ora le cose vanno meglio, se potessimo avere anche solo cinquant'anni di pace sarebbe magnifico". Ripenso alle parole di Duvan, il ragazzo dell'ostello di cui vi parlavo ieri. Vi scrivo dalla stazione di Belgrado, 10 del mattino, giornata calda, il sole gioca a nascondino con le nuvole, ma perde sempre, lo sanno tutti dove si nasconde. Il treno per Zagabria partirà alle 11 ho un'ora libera e decido di perdermi tra la gente lasciando fluire i pensieri come se non fossi io a governare la penna. Ci fermeremo a Vinkovci in terra croata, da lì cercheremo di puntare su Vukovar. Quella di Belgrado è una stazione molto piccola, se dovessi paragonarla ad una delle nostre direi Pavia, non certo quella di una capitale. Nei Balcani il treno non è un mezzo di trasporto molto gettonato, preferiscono il bus che è molto più gestibile e versatile.
Stamattina prima di uscire Duvan mi raccontava di quando durante i bombardamenti NATO, ha visto i missili girare per la città. Aveva 22 anni. "Volavano molto bassi, facevano le curve tra i palazzi, erano i missili intelligenti" Così intelligenti da riuscire a colpire ospedali e ambasciate come quella cinese ad esempio.Se avete visto la facciata del Generalstab, quel palazzone ocra semidistrutto al centro di Belgrado avrete notato che nella parte destra c'è un cratere nel centro, proprio a circa 3/4 metri d'altezza, ecco, quelli sono i missili di cui parla Duvan. Quello fatale è stato il secondo, il palazzo era stato evacuato, ma ha fatto una strage tra la folla di curiosi e tra i soccorritori che nel frattempo si erano radunati lì attorno dopo la prima esplosione. Centinaia di morti dice, guarda per terra. La motrice rossa guida due sole carrozze cavalcando in una distesa giallo/verde. Il nostro treno è lanciato a ben 10km orari verso la periferia. I sedili sono tutti nella stessa direzione così da non essere obbligato a guardare in faccia nessuno, posso dormire, scrivere, ciondolare o perdere le bave come un vecchio. Ma non vi ho ancora raccontato della resurrezione!Stamattina, mentre lasciavamo una volta per tutte l'ostello, abbiamo ritrovato vivo il nostro scarafaggetto! Si aggirava per la stanza tutto solo, in verità, non siamo certi che sia lui, è ingrassato un sacco, ma è una questione di fede ormai e lo veneriamo a prescindere. Per l'ultima volta ripenso a Belgrado, ai suoi giovani, le sue vie del centro, i suoi palazzi grigi e quelli neoclassici, gli sparuti gruppi di turisti, il Danubio, la Sava ed i tramonti sopra di loro. L'unica cosa che non riesco a descriverne è l'odore. È da quando Chiara mi ha iscritto un sms ieri sera che ci penso, vuole sapere cosa entra nelle narici camminando per quelle strade, vuole potersela immaginare ancora meglio, mi chiede se ricorda Istanbul, direi di no, nessun profumo di carne d'agnello qui. Se fosse Varanasi sarebbe fumo, stagno e curcuma, ma la verità è che Belgrado non ha un odore particolare, è simile a quello che si può respirare a Milano, al limite senza le caldarroste. Non riesco a dire di più. Scrivere dal treno mi è sempre piaciuto un sacco perché gli occhi portano alla testa infiniti stimoli e mentre ti sposti puoi perderti dentro te stesso senza paura di buttare via il tempo, perché comunque qualcosa di buono lo stai facendo, ti stai spostando. O forse è solo che mi piace lavorare in modalità muktitasking, come quando scrivo i testi delle canzoni camminando avanti e indietro per la stessa stanza quasi a consumare il pavimento. Una volta ho centrato lo stipite di una porta, non è che non l'avessi visto è che ero proprio da un'altra parte.Ma non parliamo di me, continuiamo con il viaggio. Nella periferia di Belgrado, oltre il ponte sulla Sava, solo casermoni grigi ancora una volta tutti scrostati, migliaia di finestre, terrazze e migliaia di vite dietro ognuna di quelle. Oltre i sobborghi, il mare infinito, un mare di campi coltivati, sento il mais che ti solletica le ginocchia ed il grano paglierino poco più in basso, leggermente oltre, piante di patate ed altre che sinceramente ignoro. Ad intermittenza spuntano isolotti di casupole dai tetti rossi e i muri bianchi, così immerse nella pianura da pensare di poterci vivere una vita felice con una donna, un cavallo e poco più.Lungo i binari incontriamo minuscole stazioni: Nova Pazova, Golubivci, Ruma. Dopo ogni fermata i controllori ripassano avanti e indietro per controllare i biglietti dei nuovi arrivati. Tra una stazione e l'altra la pianura continua a stendersi come un mare che ti ruba gli occhi e li porta via con sé sotterrandoli all'orizzonte. Alle 15:30 ci fermiamo nella stazione di Sid, nella Slavonia meridionale, ultima città serba sul confine, oltre, ci attende la Croazia. È il momento del controllo documenti. Salgono alcuni agenti della polizia serba in rigorosa divisa nera, spalancano le porte dei bagni e, appurato che nessuno vi si nasconda, iniziano a controllare i passaporti. Sono molto puntigliosi e segnalano via radio i nomi di alcuni passeggeri per ulteriori controlli, "Slobodan, Mirko..." e così via.Giunti davanti a noi chiedono da dove arriviamo, dove siamo diretti, e passano oltre. L'operazione di controllo si conclude in un'ora, ripartiamo per dieci minuti e la scena si ripete con le forze dell'ordine Croate, dopo un breve controllo la poliziotta mi sorride e sentenzia: "ok Liuca, welcome in croazia"! Le case qui cambiano, tutte basse due piani al massimo, regolari, una a fianco all'altra nella stessa direzione. Fuori le automobili, qualche trattore, una catasta di legna malfatta, gli spioventi Asburgici. Giunti alla stazione di Vinkovci saliamo sul bus per Vukovar, siamo in tre più l'autista, non è un posto molto turistico ed è molto meglio così. Passiamo a fianco ad una gigantesca discarica. Mi ricordo della discarica, avevo letto che dopo la caduta di Vukovar, 261 persone tra feriti e medici dell'ospedale furono trucidati con un colpo alla testa e gettati proprio lì, era il 1991. La storia inizia a manifestarsi in tutto il suo peso. Vukovar prima della guerra era un porto fluviale molto importante che dalla riva destra del Danubio, fronteggia la Serbia. La città contava 84000 abitanti: 44% croati, 37%Serbi, per il resto ungheresi, cechi ed altre etnie.Quando iniziarono le ostilità, per la paura dei serbi croati di perdere i benifici di cui godevano con Tito e la Jugoslavia, la città venne chiusa in un assedio di 86 giorni che costò la vita a 4000 civili, dei 2000 difensori della città rimasti in vita, molti furono fatti prigionieri ed inviati niei campi i militari in Serbia, alcune centinaia scomparvero nel nulla, e poi ci sono quei 261 di cui vi ho già parlato. Il pullman ci scarica in centro, dobbiamo trovarci da dormire, mettiamo a punto il nostro piano d'attacco. La tattica è quella di fermarci a bere birrette nei bar con gestori simpatici ed attaccare discorso, ma tutto naufraga quasi subito perché il loro inglese è più limitato del nostro. Ci ritroviamo sotto un sole da Arizona a sudare tutte quante le birrette. Per cercare un po' d'aria facciamo due passi sul Danubio in solitudine, quasi nessuno per le strade. Mentre pensiamo che così conciati non ci accetterà nessuno, conosciamo Boris. Boris lavora poco fuori Vukovar, non ho ben capito di che cosa si occupi, ma so per certo che da poco con i suoi famigliari ha aperto un piccolo bed and breakfast, proprio al centro della città ed è proprio a quel citofono che si sono appese le nostre ultime speranze. Ci offre asilo, le camere sono tutte a disposizione, profumano di nuovo perché il posto aprirà soltanto tra alcuni giorni, che pacchia! Ci spiega che è tutto nuovo perché Vukovar durante la guerra del 1991 è stata completamente rasa al suolo, compresa casa sua, che poi è quella in cui dormiremo perché lui vive in un appartamento lì a fianco. L'esercito serbo/Jugoslavo ha conquistato questo lembo di Croazia e per un po' di anni ci abitava altra gente in casa sua, o almeno in quello che ne rimaneva. Lui, che all'epoca aveva 16 anni è scappato a Zara, tornò a Vukovar soltanto 7 anni dopo. Lì, con la sua famiglia, si è fatto forza ed ha provato a ricominciare, forse con i fondi che la Comunità Europea ha stanziato per la ricostruzione, ma non ne siamo certi e non osiamo chiedere. Ci incontriamo in cortile sul dondolo poco dopo, io con il mio telefono a cercare un wifi, lui con il padre e la madre a pulire ciliegie, la signora mi sorride e mi invita a prenderne una, ad assaggiarle, nel frattempo continua a parlarmi in croato, le racconto che abbiamo appena messo le reti sulle nostre, in Italia, per proteggerle dai merli, lei continua a rispondermi in croato, ma se la ride e me ne offre ancora.Restiamo lì per un po' a parlarci senza capirci con un sole basso che bussa nelle retine, finisco al tavolo con loro a pulire ciliegie, forse per la marmellata o un succo, non ho capito bene, Boris se n'è andato e non abbiamo una lingua comune se non il lavoro delle mani.
Tornando alle parole di Boris, quella è la prima volta in cui davvero avverto la pesantezza del vissuto dietro i racconti, tutti i suoi discorsi sono caratterizzati da una divisione netta, cesura indelebile: "Before the war" e "after the war". Non è più mio nonno che parla della Seconda Guerra Mondiale, non è più quel mondo in bianco e nero, lontano, sono vicende di vent'anni fa con tutta la potenza dei loro colori, che molto spesso qui hanno avuto tutte le sfumature del rosso.Questa cesura ritorna nei discorsi di ogni persona che incontriamo come a segnare due epoche diverse, due stili di vita diversi, due coscienze di diverso peso.La sera, ad esempio, ceniamo in una delle 3 tavole calde che ci sono nel centro e, mentre la cameriera ci sorride a intervalli regolari, uno dei cuochi vuole parlarci. Ci chiede come vanno le cose in Italia e decanta le infinite bellezze di Brescia, unica città che ha visitato, dice che lì la vita è bella, rispondiamo che anche Vukovar è bellissima con un grandissimo potenziale turistico, se non altro, perché è tutto nuovo.Non è d'accordo, dice che è una città morta ci invita a sederci con lui lì fuori e scommettere che non passerà nemmeno una persona in un'ora. Ci racconta che come la maggior parte dei giovani di quella città, se potesse, lascerebbe tutto e se ne andrebbe anche lui. Before the war aveva una fattoria ma poi i Serbi gliel'hanno distrutta ed ha dovuto inventarsi qualcos'altro, si è sposato da poco, ha una bambina piccola e deve cucinare hamburger per vivere.Finiamo il vino, le Karlovachko e salutiamo. Ci fermiamo un po' a parlare tra di noi di questa città, del suo potenziale, restiamo per un'ora seduti su un'aiuola nella via del centro, davanti al garage di Boris, ma in tutto quel tempo, nemmeno un'anima. D'altra parte, come dicono qui, le anime hanno già lasciato Vukovar da un bel po'.
DIARIO BALCANICO di L. Cometti GIORNO 0 – “Piccola premessa doverosa” GIORNO 1 – “Cosa andate a fare a Belgrado?” GIORNO 2 – “Gli scarafaggi muoiono sulla schiena” GIORNO 3 – “Le anime di Vukovar” GIORNO 4 – “La resa di Doboj” GIORNO 5 – “Leila Thirtyfour” GIORNO 6 – “Darko” GIORNO 7 – “Dove la logica si arrende, la Bosnia comincia, Aisha” GIORNO 8 – “Le bandiere” GIORNO 9 – “Viaggio in Republica Srpska” GIORNO 10 – “Decompressione”

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