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I racconti del Menico: Medicine di ieri e di oggi

CULTURA E SPETTACOLO - 10 12 2020 - Domenico Corvi

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Bentrovati con la rubrica inerente gli scritti del dottor Domenico Corvi “Menico”. Questa settimana vi propongo un suo testo che riletto in quest' anno così particolare, lascia spazio a molte riflessioni.

“Menico” ci conduce poi a fare un lungo passo indietro nella medicina del passato dove le cure erano spesso “artigianali”, fatte in casa e con rimedi naturali. Il tutto, grazie alla fine penna dell'autore ci introduce in quelle vicende di vita contadina legate al borgo di Tirano d'altri tempi.  Buona lettura.

(I.B.)

 

Medicine di ieri e di oggi

(Di Domenico Corvi) Da diversi anni ormai partecipo a congressi e riunioni di carattere medico, dove si discutono le più svariate tecniche di cura e si tratta dei più perfezionati ritrovati farmaceutici, nel tentativo di salvaguardare la salute di chi ancora ce l’ha, e di ridarla a chi purtroppo ormai l’ha perduta. Tuttavia, guardando i risultati e soprattutto l’inesorabile ed inarrestabile susseguirsi di manifesti orlati a lutto sui muri di tutte le città del globo, viene da chiedersi dove stia realmente questo strabiliante progresso medico, decantato da tutti i canali dell’informazione: dalla TV, dai giornali, dalla radio, nonché dalla interminabile catena di pubblicazioni elaborate dalle case farmaceutiche.

Il tempo e gli acciacchi ad esso connessi, continuano inevitabilmente a compiere la loro inarrestabile opera demolitoria e la morte arriva inesorabilmente a bussare alla porta di tutti.

Eppure la gente si dà da fare in continuità, nella ricerca affannosa di qualcosa che possa allungare anche di poco la sua esistenza, arrestando solo per lo spazio di pochi attimi l’inesorabile battito dell’orologio del tempo.

Osservavo proprio qui questa mattina, all’interno  dello stabilimento termale di Montecatini, l’inesauribile processione di gente che, bicchiere alla mano, si alternava attorno al rubinetti delle acque curative in cerca di un sollievo ai propri malanni o forse piuttosto di un’illusione che li aiutasse ancora a vivere.

La stragrande maggioranza erano vecchi che si trascinavano a fatica, reggendosi l’un l’altro, come per farsi coraggio a vicenda; tutti ben vestiti, tutti carichi di preziosi gioielli, ma tutti con lo stesso sguardo spento di chi vede ormai prossima una fine cui non riesce a rassegnarsi. Ciò che in loro non difettava era la caparbia volontà di sopravvivere, di sfidare il tempo, quasi che per la gente così “su” gli , acciacchi della vecchiaia costituissero una vera e propria mancanza di riguardo.

Ed è guardando questa processione di larve umane, che quasi senza rendermene conto sono ritornato indietro nel tempo, allorché la nostra povera gente accettava con molta più dignità il proprio destino; quando le farmacie non erano così piene di  “miracolosi” ritrovati e la gente il più delle volte non aveva neanche i mezzi per procurarseli.

Allora la vecchiaia e la morte venivano ricevute come vecchie conoscenze e sempre si era pronti ad accoglierle, come qualcuno il cui arrivo era stato preannunciato.

Si sapeva che prima o poi sarebbero arrivate e quindi era perfettamente inutile cercare di sottrarvisi: tanto valeva far loro buona cera ed accoglierle colla solita dignitosa fermezza di cui ormai si è perduto lo stampo.

Del resto la stessa morte, il più delle volte, non era altro che la liberazione da infinite tribolazioni e miserie, sopportate sì con cristiana rassegnazione , ma sempre dure da trascinarsi appresso. Era forse anche per questo che non si ricorreva a tanti sofisticati medicamenti, che non si richiedeva ogni giorno di essere sottoposti a nuovi esami di accertamenti nel timore di sentirsi diagnosticare di punto in bianco qualche grave malanno; che non si andava a passare le ferie negli ospedali per rimettersi in sesto il fegato ed i poveri nervi scossi dalla disperata corsa al benessere.

Qualcuno potrebbe, malignamente, insinuare che questo cambiamento sia dovuto al fatto che allora non esistevano le Mutue e che il mettere mano al borsellino, risulta spesso assai più salutare di qualsiasi toccasana, ma io non voglio credere che sia così; probabilmente l’eccessivo benessere ed il progressivo diminuire della fatica fisica dovuta al diffondersi dell’automazione hanno finito con rendere più accogliente questa valle di lacrime, tanto che il doverla abbandonare diventa sempre più spiacevole.

Eppure non sono passati molti anni da quando la visita del medico in una casa era un avvenimento eccezionale, da ricordare a lungo.  Forse il veterinario veniva sollecitato più spesso, ma del resto il perdere una mucca o anche solo un suino poteva voler dire la miseria per tutta la famiglia , mentre il perdere un congiunto, sentimenti a parte, non costituiva poi una perdita tanto irreparabile.

Così , fin che era possibile, si cercava di ovviare ad ogni male coi rimedi empirici di sempre, quelli cioè che l’esperienza e la natura, aiutate assai spesso anche da una buona dose di autosuggestione, avevano insegnato ad usare nel tempo. Distorsioni, stiramenti, lussazioni,contusioni erano regolarmente curate, con il beneplacito dei conciaossi, che non mancavano mai in un centro di una certa importanza, colla solita “stupàda” costituita da un impacco di albume d’uovo sbattuto applicata sulla parte con un bendaggio stretto. Si poteva in questi casi aggiungere anche un impacco di foglie di “slavazza” e, se oltre alla distorsione c’era anche una “incalcadüra”,  era raccomandabile la applicazione di una bella “sciòta de vàca” appena sfornata; materiale alla portata di tutti in abbondanza e sicuramente di prima qualità! Per gli ascessi, il mal di denti, i fatti catarrali acuti non c’era nulla di più valido di una “papìna de lin” messa sulla parte, ancora bollente: non importava se a volte l'eccessivo zelo procurava qualche ustione; l’importante era il risultato finale. Per l’orzaiolo, meglio conosciuto come “ öcc pulìn”, bastava guardare fisso e a lungo sul fondo della bottiglia dell’olio. Per le forme infiammatorie intestinali molto usato era l’olio di mandorla  frizionato sulla pancia o quello di paraffina ingerito in abbondanti  cucchiaiate. Anche qui, come terapia collaterale, si poteva ingurgitare una lumaca estratta viva dal guscio e mandarla giù tal e quale, meglio ancora una ranocchia viva. In caso di epatite l’unica cura valida era l’ingestione di un certo numero ( in genere da sei a otto ) di pidocchi, anche questi facilmente reperibili in tutte le case senza spesa alcuna.

Per le ferite sanguinanti, piuttosto numerose dato il tipo di esistenza e di lavoro per lo più manuale, molto indicata era una  “ragnìna” o ragnatela appena staccata dalla parete  e anche qui non era necessario recarsi in cantina o in “crapéna” per trovarne!

Se l’incidente traumatizzante accadeva in montagna, allora bastava prendere un “verùbbiu”  o trapano a mano e praticare  un buco sul tronco di un larice; la resina che ne colava, applicata sul taglio, lo faceva rapidamente rimarginare.

L’aglio, legato a collare intorno al collo, era quanto di più attivo per far tornare nell’intestino i “ verùm” che tentavano di salire in gola.

Quanto questo metodo fosse praticato ( del resto si pratica tuttora  in molti paesi e frazioni di montagna ) è dimostrato  dal fatto che ancora non molto tempo fa  mi è capitato di vedere bambini  con legate attorno al collo le supposte  contro il mal di gola, naturalmente la colpa è del medico che non ha saputo spiegarsi nel modo dovuto.

In un tempo in cui le parassitosi erano assai più diffuse d’adesso, date le condizioni igieniche e la scarsità di comodità, un vero e proprio rito era costituito dalle cure della tenia o verme solitario, operazione questa  che coinvolgeva  spesso tutti i componenti della famiglia .

Dopo una dieta di almeno una settimana a base di insalata e uova sode  e la somministrazione di un certo numero di semi di zucca, seguita da un violento purgante , alla fine il povero verme, non meno stremato del suo sfortunato ospite, si decideva a presentarsi all’orifizio anale in cerca di un po’ di cibo e qui trovava ad accoglierlo un capace orinale o addirittura un bacile  dove inevitabilmente cadeva esausto. Qui interveniva tutta la famiglia al completo che, rimescolando coscienziosamente il lungo nastro biancastro, non lo mollava più fin che non era riuscita ad individuare la microscopica testolina, e questo era segno sicuro che l’operazione era andata a buon fine, altrimenti non restava altro che, dopo un salutare intervallo di riposo, ricominciare tutto da capo. Il problema di maggior impegno era poi quello della cura delle malattie nervose.

In un tempo in cui le superstizioni avevano facile vita, il demonio faceva la parte del leone.

Spesso era solo la miseria  e lo stomaco vuoto che creavano stati  allucinatori; le credenze popolari ed un certo concetto errato della religione facevano  il resto.

L’isterismo, l’epilessia, le forme demenziali erano sempre attribuite ad una cattiva influenza del maligno e pertanto toccava alla fede guarirle.

Si organizzavano pellegrinaggi ai santuari specializzati nel ramo;
ricordo d’aver sentito menzionare fra questi il santuario di Gallivaggio ed una non meglio specificata “Madonna di Ardes”.

E’ questo però un campo dove anche oggi è ostico aggirarsi, quindi sorvoliamo.

Ci sarebbe da scrivere per pagine e pagine e forse mi sono lasciato prendere la mano. Quel che mi premeva dire era in sostanza che la medicina, ieri come oggi, miracoli non ne può fare  e che i farmaci devono essere aiutati anche da molto buon senso e da un po’ di spirito critico. Oggi i termini si sono un poco invertiti; il libretto della Mutua ha preso il posto dell’esorcista; i bei flaconi pieni di pillole colorate sono diventati i nuovi portatori di salute.

Oggi non si dovrebbe neanche più morire; il sogno di Faust è realizzato. Lo  Stato offre medicine a tutti e medici pagati apposta per ricettarle; la salute si compra in farmacia. Oggi non si curano le malattie, ma si prevengono. Forse è per questo che il più delle volte si chiama il medico prima ancora di essere sicuri di averne bisogno: “urmai l’è pagàa !”.Un tempo, quando un bambino  aveva la febbre, la madre prima provava a fargli il solito clisterino, poi gli metteva la suppostina febbrifuga; poi, se nonostante tutto questo la febbre non accennava a scendere, ci si buttava  qualcosa sulle spalle e si andava a bussare rispettosamente alla casa del medico; e quello accorreva perché era sicuro che la sua opera era necessaria.

Oggi invece la madre guarda il bambino e , se solo la sfiora il sospetto che possa stare poco bene, neanche perde tempo di sincerarsene; si attacca a quell’infernale strumento che è il telefono e che ormai tutti possediamo, e chiama d’urgenza il medico; e guai a lui se non arriva di corsa; ci  può scappare anche una denuncia per omissione di soccorso! Se poi,. quando arriva si sente dire che è stato un falso allarme , pazienza: “ mèi cur par pòch che par tant !”

Quello che volevo soltanto sottolineare è che l’abuso di medicine è quasi altrettanto dannoso quanto le malattie stesse e che spesso un po’ di buon senso e di spirito critico valgono più di qualsiasi medicinale.

La malattia e la morte che ne consegue fanno parte della stessa natura dell’umanità; il nostro passaggio sulla terra è destinato ad essere solo temporaneo e questo nonostante tutti i medici e le medicine, siano esse il vecchio impacco di “ sùngia”  o il moderno ritrovato frutto della ricerca scientifica più accurata. Quello che veramente conta è l’essere sempre pronti ad affrontare serenamente la nostra sorte, sicuri  di aver fatto il nostro dovere e di aver lasciato un sereno e dolce ricordo...

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