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I racconti del Menico: S. Gaetano

CULTURA E SPETTACOLO - 31 12 2020 - Domenico Corvi

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Anche in questo racconto, il dottor Corvi con la sua finezza descrittiva e pienamente vissuta, ci riporta nella Tirano di ieri e nella sua tanto cara Trivigno. Nel suo narrare la storica processione di San Gaetano, fa rivivere quella giornata densa di aspetti religiosi e umani. Buona lettura.

 

San Gaetano

(Di Domenico Corvi) Il mondo sta irrimediabilmente cambiando; non c’è settore della natura che non sia sovvertito dalle tecniche e delle nuove scoperte. Tutto viene rivoluzionato e anche le istituzioni sulla cui stabilità chiunque sarebbe disposto a giurare, vengono spazzate via da questo vento innovatore che cancella in pochi attimi il prodotto di secoli di elaborazione di intere generazioni di attività.

 

Anche ciò che le nostre nonne, nelle lunghe serate d’inverno attorno ai camini ci insegnavano ad accettare come dei dogmi inattaccabili, crollano come castelli di cartapesta di fronte al turbine del progresso. E ciò sarebbe ancora ammissibile se riguardasse soltanto le cose terrene: è ovvio che questo nostro travagliato mondo, nel corso dei secoli, ha subito le trasformazioni più varie e radicali; ma quello che lascia perplessi è che anche le faccende dell’aldilà vengono messe in dubbio: persino le verità dei santi che per secoli sono stati oggetto di culto e di venerazione ed hanno contribuito ad alleviare le tribolazioni di intere generazioni. Hanno sovvertito persino perfino i calendari e vari nomi di santi sono stati estromessi di forza dalle righe del lunario, mentre altri sono stati spostati di ufficio per far posto alla concorrenza. E’ successo così che delle autorità finora indiscusse si sono viste negare persino il certificato di autenticità. Prendiamo ad esempio S. Gennaro, che nonostante tutto, si presenta puntualmente a compiere il suo miracolo con degli scarti che al massimo sono contenuti nell’arco della mezz’ora; che per secoli ha distribuito terni al lotto e persino cinquine sicure per alleviare la miseria dei nostri confratelli del sud dall’oggi al domani messo al bando come un qualsiasi gerarca del passato regime.

 

Eppure una volta tutti questi santi avevano il loro compito ben definito ed un posto sicuro in ogni calendario, dovunque venisse stampato il popolo sapeva bene dove cercare a e di conseguenza chi invocare al momento opportuno.

 

Prendiamo ad esempio S. Gaetano; noi tiranesi lo sapevamo bene, o almeno lo sapevano una trentina di anni fa, quando lo spirito religioso era ancora radicato nelle famiglie e nella vita di ognuno regolava secondo le feste il calendario . Allora anche i giovani non si vergognavano di farsi vedere alle processioni ed alle funzioni religiose. Oggi si vede poca gente,il venerdì santo, seguire la croce di Cristo. Una volta andavano tutti anche alle processioni per le rogazioni, rubando qualche ora al sonno, ma sicuri di trarne merito per l’aldilà e magari anche qualche aiuto per l’adiquà. Così, la mattina del 7 agosto la gioventù di Tirano, prima ancora del,sorgere dell’alba, si radunava sul sagrato di S. Martino, tutti con il proprio zainetto in spalla col pranzo da consumare al sacco e, al suono delle campane , tutti si incolonnavano dietro i confratelli che, col loro pesanti crocifissi e paramenti, si prendevano l’avvio per la più suggestiva ed originale delle nostre processioni. Dal sagrato lungo la via Torelli, passanto il “büi vécc” la comitiva imboccava direttamente via Trivigno ( allora lo stradone, almeno in primo tempo, non tagliava ancora in due il frutteto Torelli e quindi non era necessario fare delle soste per permettere il transito delle auto lanciate verso i luoghi di villeggiatura dell’alta Valle) alla cui sommità una croce, tutt’ora esistente, segnava l’inizio della salita vera e propria.

 

Passando davanti al “Castelàsc” e attraversata “la val” si arrivava alle “cadéne” dove i “viciürìn” solevano posteggiare i loro “redée” da agganciare alle “priàle” e poi si cominciava la salita vera e propria fino alla Prima Croce stagliantesi in cima a un dosso in posizione panoramica. A questo punto l’alba era ormai sorta e il sole si preannunciava tingendo di rosa la cima del Massuccio, Qualcuno, per evitare l’impervia salita aveva preferito pigliare il sentiero pianeggiante della “Cà dei Gatèi” ma qui ci si trovava tutti e dopo un breve riposo, si procedeva più speditamente verso l’alto, aggirando di buona lena la “Volta del Pèrsech” e giungendo così fino a “ Rùnch” dove sorgeva la Seconda Croce e dove si poteva anche trovare un po’ di ristoro all’arsura ormai esasperata, nella vecchia osteria rustica della “Virginia” dove c’era sempre fresca qualche bibita portata fin lassù a dorso di mulo, Da qui, superato abbastanza facilmente l’ultimo tratto in mezzo al bosco,costeggiando il “mùnt di Tù gn” si sboccava nel pianoro di Piscina dove la osteria ( in primo tempo dei Plòo ) e quindi passata ai “Gagìn” offrivano refrigerio alle gole ormai assetate.

 

Qui la tappa era un po’ più lunga, perché bisognava riprendere fiato prima dell’ultimo sprint,che doveva portare in cima alla vetta. Finita la sosta e placata momentaneamente la sete, si ripartiva con rinnovellata lena per arrivare a fare un ‘altra breve tappa al “ Roccolo Pinchetti” dove era già preparata un’enorme catasta di legna per fare un bel falò che asciugasse il sudore dei primi clienti, mentre il prete ed i confratelli trovavano pronti un buon caffè dentro alla baita stessa del “Roccolo”.

 

Mi è caro ricordare questa tappa perché dentro a quella baita, io passavo tutte le estati della mia infanzia e ricordo ancora mia madre china davanti al focolare mentre il caffè profumato bolliva dentro al “pignatìn”.

 

Io mi alzavo allora per godermi lo spettacolo di quel falò che io stesso avevo contribuito a preparare il giorno seguente. Da qui mi univo alla processione, che in un ultimo slancio, passando attraverso i monti dei “Catalùt” poi a quello dei “Muràt” e quindi costeggiando quello dei “Merlée”arrivava la fine a concludere la sua fatica, davanti alla chiesetta di S. Gaetano, nella ridente piana di Trivigno, dove il vecchio Don Bonazzi ( Bunazzìn ) aveva tutto predisposto per la Messa.

 

La piccola chiesa non poteva contenere la massa dei fedeli e probabilmente nemmeno il loro entusiasmo; molti si inginocchiavano sul prato per ricevere la benedizione. Veniva su allora da Stazzona anche il vecchio “ Fiorina” con la gerla piena di focacce dolci e di pipe di zucchero assieme ai primi grappoli d’uva della stagione e tutti si ammassavano attorno a lui per gustare tante prelibate leccornie.

 

Finita la messa sciolto il corteo, tutti si disperdevano nei boschi in allegra compagnia per consumare il pranzo racchiuso dentro gli zaini e portato fin lassù con tanta fatica. Tutta la piana di Trivigno, dalla chiesa fino alle “Banchelle” e fino alle pendici del “Padrio” veniva allora invasata da gioventù felice ed esultante: canti e suoni si intrecciavano risvegliando l’eco dei bosco e confondendosi con il canto degli uccelli che allora erano assai più numerosi di oggi. Persino i falchetti e le astori, ora quasi scomparsi, allora erano sempre presenti nel cielo aspettando il momento buono per buttarsi su qualche galletto incustodito, volavano più alti dei solito, stupiti da tanto rumore che veniva a turbare la pace dei monti, Così la sera arrivava senza quasi che si accorgesse e tutti si preparavano a ridiscendere alla spicciolata le pendici del monte verso la propria casa, mentre un ultimo suono di fisarmonica, si perdeva là in fondo verso l’osteria dei “ Patalòo “ dove qualcuno stava finendo l’ultima partita a morra e San Gaetano dall’alto sorrideva felice a quella gente semplice e genuina che aveva così voluto onorarlo.  

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