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Simbalò: Lorenzo Bassetto, un giovane leone

CRONACA - 12 11 2021 - Stefano Ferrari

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/Lorenzo Bassetto a gardaland
Lorenzo in alto a sinistra, con Stefano in gita scolastica a Gardaland

L'ho incontrato per la prima volta a scuola, in quanto ci trovammo a frequentare la stessa classe: la 1 C.

Ai tempi delle medie portava un ciuffo alla Zack Morris, un personaggio della sitcom statunitense Bayside Scholl, che allora spopolava tra noi adolescenti (assieme chiaramente a Beverly Hills 90210)

Non era però il leader della classe, come quel personaggio che emulava nella capigliatura: era troppo docile, tenero, spontaneo, per esserlo - qualità che a quell'età, in un paese di provincia, non vengono veramente ammirate, apprezzate dai coetanei.

In più era nuovo in paese, non aveva ancora amici su cui contare, con cui fare spalluccia per mostrarsi forte davanti agli altri.

Scoprii presto che suo padre era stato amico di gioventù di mio padre e dietro l'invito della madre, iniziai a trascorrere quasi tutti i pomeriggi a casa sua. Era una casa grande, ricca di arte soprattutto africana - i genitori avevano infatti vissuto per molti anni nella Repubblica democratica del Congo (che al tempo si chiamava ancora Zaire) e anche lui aveva conosciuto quelle terre, ricche di natura, mistero e conflitti.

In quei pomeriggi trascorsi assieme dapprima studiavamo e poi ci lanciavamo nel gioco: in garage aveva un tavolo da ping pong dove trascorrevamo ore a gareggiare (spesso scommettendo, in quanto condivideva la mia stessa passione per la competizione) oppure a sfidarci al Super Nintendo, in particolare a Super Mario Kart – consuetudini queste che si protrassero anche nell'età adulta.

Avevamo anche la stessa passione per lo sport: lui sciava con una destrezza che io ammiravo e se la cavava bene anche con la racchetta da tennis.

Così finite le medie abbiamo continuato a vederci, a competere, anche se non studiavamo più assieme: lui, infatti, si era iscritto al liceo scientifico, io a ragioneria.

Poi, dopo la maturità, io ero finito a lavorare a Sondrio presso un istituto bancario, lui invece si era trasferito a Milano, si era iscritto all'università, facoltà di economia.

Ci si vedeva poco, di sfuggita, anche perché con l'inizio dell'anno 2000 (dopo quel famoso Capodanno preceduto da mille annunci per il “pericolo millenium bug") ero partito per Aosta: iniziava la mia avventura militare che mi avrebbe portato a Roma ed infine a Torino dove prestai servizio come Ufficiale dei Carabinieri per quasi tre anni (con alcune missioni in Sicilia nella provincia di Caltanissetta).

Di quel periodo a ridosso degli anni duemila ricordo vivamente un incontro nel suo appartamento a Milano (dove in seguito anch'io mi trovai a vivere) per via della scoperta dello "squillino", una tecnica utilizzata tra i giovani dell'epoca di cui io – inserito già in un mondo adulto – ne ero allora ignaro. (Per i millenial che leggono: intorno all'anno duemila chiamare col telefono mobile - che per molti era il 3310 della Nokia - costava molto, tra scatto alla risposta e tariffazione al minuto. Così era in uso tra i giovani farsi squilli, anche solo per salutarsi).

Ero poi andato a trovarlo anche a Londra, dove nel frattempo si era trasferito per continuare i suoi studi: fu il mio primo viaggio all'estero, fatto con una compagnia allora sconosciuta, Ryanair, che volava da Torino Caselle a London Stansted ad un prezzo allora stupefacente (talmente stupefacente per i tempi che alcuni miei colleghi guardavano con sospetto quelle inserzioni pubblicitarie sulla prima pagina del quotidiano “La Stampa): 29.900 lire

(Ancora per i millennial che leggono: era ancora il tempo delle lira, sebbene l'euro era già legalmente in vigore e circolava sotto forma di banconote e monete - fino al 2002 in Italia vigeva la doppia moneta e generalmente i prezzi venivano riportati prima in lire e accanto, più in piccolo, in euro, la cui cifra comprendeva decimali e centesimi – nel caso dell'annuncio in questione 15,44 euro).

A Londra ero stato qualche giorno, dividendo la sua minuscola camera in un college ad Hackney: studiava molto, come al suo solito, e conosceva poco la città: c'era stata però l'occasione di lanciarsi in qualche serata, nei quali ho il ricordo di alcuni inglesi a torso nudo, ballare scatenati in un piccolo pub sottoterra.

Dopo aver conseguito la laurea, si era trasferito a Parigi per un master. Viveva in un piccolo appartamento bohemien nel quartiere di Montmartre, dove mi aveva ospitato per più di un mese. Io allora avevo preso a fare il modello: mentre lui frequentava le lezioni o studiava (nel solito impegno che lo contraddistingueva, e che mi ero trovato perfino a criticare, ritenendolo eccessivo) io me ne andavo in giro a fare casting o a visitare i tanti musei della capitale francese, spinto già allora dalla passione per l'arte. Di quella breve esperienza parigina, delle piccole avventure vissute assieme, si trovano tracce anche nel mio primo romanzo, che pubblicai molti anni dopo (Dove danzano gli angeli, nel quale avevo chiaramente cambiato ogni nome).

Dopo il master trovò lavoro in una multinazionale, come tanto aveva sognato. Si occupava di acquisizioni di società: viaggiava spesso, guadagnava bene e lavorava molto, forse troppo.

Anch’io, nel frattempo, avevo preso a viaggiare: avevo scoperto il mondo dell'assistenza turistica e mi ero trovato a lavorare in diversi paesi, per lo più in Spagna e Grecia. Ci si vedeva quindi poco, generalmente a Tirano, dove entrambi tornavamo per cercare tranquillità, calore familiare, spesso in occasione delle festività.

La nostra era diventata così un'amicizia dettata dal tempo, dai ricordi comuni, più che dagli interessi reciproci. Le nostre traiettorie di vita si erano col tempo allontanate: non condividevo la sua passione per il business, di cui amava parlare, e trovavo il lavoro che faceva – dal carico imponente e che lo sottoponeva a molti stress – perfino noioso. Ma avevamo entrambi continuato a coltivare la passione per lo sport, per la sfida, e questo era un collante che rendeva il tempo trascorso assieme sempre molto piacevole.

Andò avanti così per anni, poi un giorno improvvisamente tutto cambiò.

Ricordo ancora perfettamente quel momento di otto anni fa, il mio telefono che aveva preso a squillare, il suo nome che compariva nel display: Lorenzo.

Mi trovavo in un parcheggio, mentre stavo lavorando come steward per qualche evento di cui poco mi importava, e quello che mi disse senza tanti giri di parole fu che gli avevano diagnosticato un cancro al cervello.

Alcuni giorni prima era stato invitato a fare una TAC, dopo che ad una visita specialistica aveva raccontato di alcuni strani episodi, in cui aveva perso completamente la vista per alcuni secondi.

Lo specialista comunicandogli la diagnosi aveva anche aggiunto – in una maniera che lui ritenne brutale - di prepararsi, perché gli restavano pochi mesi di vita.

L'enormità di quanto comunicatomi mi aveva stordito, ammutolito. Cosa dissi quel giorno al telefono non me lo ricordo, ma ricordo che impiegai dei giorni per prendere veramente consapevolezza di quanto mi aveva raccontato.

E se mi avessero comunicato a me, che mi restavano pochi mesi di vita, cosa avrei fatto?

Probabilmente lo stesso che fece Lorenzo: sarei andato da un altro specialista - nella consapevolezza che la Scienza non si muove su Verità, ma su probabilità, seguendo una logica di causa effetto e basandosi su assunti che volta per volta posso essere confutati.

Ed ecco che un nuovo specialista gli aveva dato prospettive diverse: poteva essere operato, e lui voleva farlo, il prima possibile.

L'operazione avvenne con le più moderne tecniche di chirurgia, da sveglio. Fu Lorenzo a raccontarmi per primo ciò che aveva affrontato, in maniera dettagliata – ed io mi ero trovato ad approfondirlo in seguito, grazie ad un reportage pubblicato sul settimanale Internazionale.

Dopo la craniotomia, durante l'operazione vera e propria, era stato invitato dall'equipe a parlare con loro in tutte le lingue che conosceva, mentre il chirurgo asportava la massa tumorale. Questo nuova tipologia di operazione – oggi in uso in molti centri - aiuta il chirurgo nell'operazione di asporto, il cui compito chiaramente è di evitare di far perdere al paziente quelle capacità essenziali apprese nel corso della vita (e per ultimo la vita stessa).

L'operazione andò bene e Lorenzo recuperò a tal punto da venire a trovarmi a Mykonos l'estate successiva: continuava a parlare correntemente quattro lingue, guidava il motorino ed in qualche modo sembrava che quanto accaduto fosse qualcosa di cui poterne parlare tranquillamente. Certo, aveva avuto un recupero difficile, aveva affrontato la chemioterapia con tutti i problemi che essa genera, aveva perso anche del campo visivo, soprattutto in un occhio, ma confidava in un ritorno alla vita di prima: stava già progettando di tornare al suo lavoro e aveva già rivisto i suoi colleghi, i suoi responsabili per mostrare le sue intenzioni.

Quello che allora non sapeva (che non aveva ben compreso e che quindi anch'io ignoravo) era che da quel tipo di tumore, non si poteva considerarsi mai guariti. Perché il tumore poteva ripresentarsi, ed in particolar modo nel suo caso, vista la giovane età.

Fu così che tempo dopo, con suo grande rammarico (e di tutti quelli che lo conoscevano) dovette essere nuovamente operato. Fu così che scoprì (che io scoprì) il destino della sua vita.

Era gennaio, l'anno 2016.

Stavolta durante l'operazione mi trovavo in Italia ed andai a trovarlo all'ospedale dopo l'operazione e poi a casa dei genitori a Tirano, durante la convalescenza. Fu allora che mi raccontò del suo sogno di scrivere un libro che raccontasse la sua vita, la sua esperienza. E volevo aiutare a farlo? mi domandò.

Io ero piuttosto perplesso: scrivere un libro richiede tempo e molte energie, ed in quel momento Lorenzo si trovava in una condizione fisica poco propensa a tutto ciò: assumeva cortisone, antibiotici, non dormiva praticamente mai, alternando momenti di grande entusiasmo – perfino estasi – a momenti di depressione, ira.

In quei giorni aveva perso la dimensione del tempo (è la mente umana, infatti, a percepire il tempo – per approfondimenti, vedi tra i tanti “L'ordine del tempo” di Carlo Rovelli) parlava a fatica, non ricordava neppure i giorni della settimana. Ma cosa avrei potuto dirgli?

Fu in quel mese trascorso assieme, nella sua volontà di lasciare traccia di sé, che imparai a conoscerlo meglio, che mi legai definitivamente a lui.

E nello shock di quanto vissuto, nella fatica di stargli vicino in quel periodo, tra visite mediche, pianti, urli e passeggiate, nacque uno strano libretto, nel quale trasferivo l'esperienza vissuta in una dimensione favolistica – se non altro per me stesso, per cercare di elaborarla.

Il titolo lo decidemmo assieme, con l'apporto anche di sua madre: Simbalò, il giovane leone (il libro non è mai stato pubblicato, in quanto fuori dai canoni editoriali generalmente richiesti dal mercato, ma può essere scaricato sul mio sito, nella pagina “books”).

Come oggi, anche allora pensavo che le persone a cui è stato diagnosticato un tumore non vadano commiserate, e credo che farlo sia un errore e che l'errore nasca – come sempre – dal linguaggio che adottiamo, dall'uso di quella parola - “malato” - che etimologicamente significa “che sta male”.

Questo non significa che le persone che lottino con un tumore non abbiano momenti di puro sconforto, di grande dolore, perfino depressione (e magari volontà suicide) ma significa non limitarsi a vedere in loro solo questo. Alla parola “malato” andrebbe preferita la parola “in cura”: ciò aiuterebbe loro, aiuterebbe noi stessi ad aiutare loro (e quindi noi stessi) ad uscire da questo sconforto, da questo dolore.

Lorenzo non era “malato”, e in tutti questi anni, tra le tante difficoltà che ha superato, nelle varie operazioni a cui si è sottoposto, lo ha dimostrato in molte occasioni.

Per me – ed è importante non considerare ciò che sto per dire un'iperbole – è stato in alcune occasioni perfino un maestro – e di ciò non posso che essergli grato.

Giorni fa preparando la mia ultima azione poetica, scrissi quanto segue: "l'azione poetica è un'azione artistica in quanto opera in una dimensione Poetica, dove non esiste il Tempo. Attraverso l'azione poetica l'uomo entra nel suo mito, dove le cose sono solo immaginate. Scopo dell'azione poetica è liberare l'uomo dalle paure, e quindi dalla mente dell'universo, per una rivoluzione d'amore. L'azione poetica genera il manifesto da cui è ispirata."

Se ho potuto scrivere queste parole, se ho potuto credere in queste parole, è anche grazie a Lorenzo, all'esperienza vissuta con lui (di cui certo non basta un post per raccontare nel dettaglio).

In questi otto anni di lotta al tumore, tra cure sperimentali e speranze continuamente rinnovate, Lorenzo ha vissuto molti momenti di gioia, di puro amore – come forse non aveva mai vissuto prima - e credo di non essere l'unico che possa testimoniarlo. Ha amato e ricevuto amore: dalla sua famiglia, dai suoi amici, e da Elise, la ragazza che ha conosciuto a Nizza dove ha cercato di rifarsi una vita e che è diventata sua moglie nell'agosto scorso – attraverso il rito cattolico, dopo che Lorenzo ha deciso di battezzarsi, di abbracciare il cattolicesimo.

A Tirano, negli ultimi anni, hanno iniziato a conoscerlo in molti. Io stesso, in diverse occasioni, accompagnandolo nelle passeggiate, ho visto persone di carattere generalmente introverso parlare con lui, aprirsi, raccontare le proprie difficoltà, i propri progetti, i propri sogni.

Tirano - questa piccola cittadina di poco meno di diecimila anime da cui sono scappato diciannovenne in cerca di avventure e di sogni – ho iniziata a vederla, a conoscerla, apprezzarla, proprio grazie a Lorenzo, alla sua curiosità, alla ricerca dell'altro e della sua storia.

Quando muore una persona che ci è cara si crea dentro di noi un abisso che pare senza fine. Lo so, perché è da quasi vent'anni che ci lotto – come chi mi legge, chi mi ha letto davvero, avrà compreso. Scrivere, per me, non è infatti che una continua ricerca di senso, un lavoro continuo per colmare questo abisso. E credo che questo riguardi tutta l'Arte, perché ogni ricerca artistica – come ho scritto in passato in un mio libro – è infatti nello stesso tempo una ricerca spirituale.

Quella ricerca spirituale che molti di noi sentono, e che spinge alcuni di noi a studiare e ad abbracciare le religioni, a cercare i nostri limiti, le nostre paure, magari scalando la vetta di una montagna o viaggiando in un altro continente per assistere alle cremazioni dei morti sul fiume Gange.

Quando muore una persona credo che non ci sia altro da fare: vivere, vivere intensamente, anche per quella persona che oggi non vediamo più – ma che io credo ci accompagni, ci sia vicina per sempre.

Così ho fatto in passato, così continuerò a fare.

Oggi si sono tenuti i funerali di Lorenzo, il canonico rito in chiesa, nella parrocchia di San Martino, la sepoltura della bara in cimitero, accompagnata da un timido sole autunnale.

Ho assistito a tutto ciò senza versare neppure una lacrima. Perché avevo già pianto, e molto, ma ciò non mi preoccupa, perché come scrissi anni fa assieme a Lorenzo, le lacrime puliscono gli occhi e ci permettono di vedere meglio.

Così, con l'onore di averti conosciuto

nel luna park della Vita

oggi a te brindo

nell'immensità di tutto ciò che è stato

di tutto ciò che è

e che sarà.

 

Con affetto

Stefano

Tirano, 10 novembre 2021

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