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13^ parte - Le calamità del 1987 in Valtellina

CULTURA E SPETTACOLO - 02 06 2017 - Mèngu

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/Il lago di S Antonio, alluvione 1987
Il lago di S. Antonio

Questo scritto, diviso in diverse puntate, è dedicato alle 53 vittime delle calamità che si abbatterono nell’estate dell’87 in Valtellina e ai giovani, perché non dimentichino il “male antico” della valle.

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Parte 1Parte 2Parte 3Parte 4Parte 5Parte 6Parte 7, Parte 8, Parte 9, Parte 10, Parte 11, Parte 12

 

La pioggia era cessata ma i torrenti erano ancora grossi; l’acqua si era accumulata nei profondi anfratti della montagna e li aveva riempiti. Ora lentamente la montagna rilasciava il suo carico d’acqua in grosse sorgive, in venute d’acqua mai viste prima in tempi normali.

 

Lassù sul pianoro situato sulle pendici del monte Redasco  quelle piogge avevano ingrossato i ruscelli. I depositi morenici degli antichi ghiacciai del Monte Coppetto e delle cime del Redasco si erano imbevuti a dismisura, avevano formato pozze d’acqua che erano diventate pesanti fardelli. La montagna ora doveva sopportare, sorreggere, trattenere quei pesi insoliti perché non scivolassero a valle.

 

Laggiù in fondo valle sette operai stavano lavorando.

 

Il pericolo era grande, ma l’esigenza di salvare il salvabile era prevalsa, com’è sempre stato nel costume eroico della gente della nostra valle, anche a costo della vita.

 

Mentre gli operai laggiù lavoravano, la terra tremava sotto le loro macchine. Essi avevano paura, ma lavoravano.

 

Il giorno prima, lassù sul monte, qualcuno aveva visto, dopo la grande alluvione, che un torrente scendeva dalla Val Pola e poi spariva negli anfratti del terreno per poi ricomparire più in basso. Le fenditure nel terreno che si erano viste e che avevano messo in allarme la popolazione  erano divenute più grandi, misuravano seicento metri di lunghezza ed erano più profonde.

 

Forse quel torrente che scompariva e poi appariva a valle stava scavando all’interno della montagna, forse stava imbevendo l’enorme massa di terra e sassi instabile della Val Pola, forse l’acqua faceva da cuscinetto, da  lubrificante tra la roccia del monte e la grande massa di detriti superficiali lasciata sulle pendici del Coppetto dagli antichi ghiacciai.

 

I geologi avevano chiamato” paleofrana “ quel grandioso smottamento in atto.

 

Gli operai che lavoravano lì sotto non erano stati abbandonati al loro destino . Dal campanile di S. Bartolomeo alcuni uomini erano di vedetta giorno e notte, momento per momento, per controllare gli sbuffi di pietra di quel monte instabile.

 

Il borgo di S. Bartolomeo che si erge dalla parte opposta al monte Zandila è il posto ideale per osservare la montagna, vederne ogni piccolo movimento, poter dare l’allarme in valle. Da lassù si può vedere tutto quello che capita sui monti circostanti.

 

Prima delle sette di mattina del giorno 28 quelli di vedetta a S. Bartolomeo sentirono suonare le ore dell’orologio del campanile di S. Antonio Morignone, quei rintocchi furono gli ultimi suonati.

 

Non solo gli animali intuiscono il pericolo!

 

Quella mattina quelli che erano di guardia a S. Bartolomeo, intuirono che quel mostro possente e sbuffante che si trovava innanzi a loro poteva scatenarsi da un momento all’altro; avevano visto e sentito le continue scariche di sassi che cadevano dallo Zandila ed erano lì pronti a dare l’allarme in caso di grossi movimenti franosi.

 

Ma non vi fu il tempo, perché in un attimo tutto successe.

 

Il monte cominciò a muoversi: prima si mosse la base, poi la mezzacosta, e infine la sommità della montagna. Lassù, dove vi erano le grandi crepe si videro gli alberi tremare, poi inclinarsi e intrecciarsi tra loro e come risucchiati da un gorgo possente precipitare a valle. Una nuvola di  polvere, poi un boato lungo, interminabile risuonò in valle; gli alberi, i tralicci delle grosse linee elettriche, enormi massi caddero risucchiati in un polverone infernale.

 

Quelli a S. Bartolomeo, di guardia alla frana, videro travolgere le case di Morignone e S. Antonio , S. Martino di Serravalle, sotterrare le case di Poz e Tirindré ; videro il campanile della chiesa di S. Antonio spezzarsi a metà, volare sopra le case e finire la sua corsa 100 metri più a valle.

 

Fu come il terremoto. Ogni pietra vibrava impazzita.

 

Poi la frana per 250 m. in altezza risalì il fianco opposto da dove era caduta , come acqua in un catino scosso e invase con i sui detriti la valle fino al ponte Del Diavolo e a monte fino ad Aquilone.

 

Spaventoso! Sul fondo valle si era formata una distesa di viscido fango lunga tre chilometri e mezzo che aveva coperto il fiume e le case; il corso dell’Adda era sbarrato dall’ ammasso colossale di rocce, ghiaia, terriccio e alberi d’alto fusto, mentre la montagna emetteva sinistri boati e continue scariche di sassi.

 

Fortunatamente, tutti i 419 abitanti di Morignone, S. Antonio Morignone, Poz e Tirindrè erano stati sfollati per il pericolo imminente.

 

A S. Martino di Serravalle due contadini erano rimasti lassù per accudire le loro bestie, sicuri che mai la frana li avrebbe raggiunti. Gli abitanti di Aquilone erano ancora nelle loro case; alcuni di loro stavano facendo i loro normali lavori, altri ancora dormivano, nessuno aveva pensato che la frana potesse raggiungere l’abitato.

 

La frana che era stata valutata circa un milione di metri cubi si era rivelata di ben 40 milioni di metri cubi.

 

Un disastro per la Valdisotto! 

 

I sette operai che lavoravano in valle furono sepolti. Ventidue abitanti di Aquilone morirono travolti dal soffio assassino della frana che era arrivato fin lassù distruggendo le case.

 

(Continua… )

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