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2^ parte - Il figliol “prodigio” di via San Giacomo. Milano-Tirano

CULTURA E SPETTACOLO - 17 12 2020 - Ivan Bormolini

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/Il medievale campanile
Il medievale campanile

(Seconda ed ultima parte di I. Bormolini) Ci siamo lasciati ieri con la storia di Giovanni che prendeva il treno per tornare a Tirano in una giornata di novembre.

In quel viaggio Giovanni si sentiva affranto, sconfitto, privato dei veri sentimenti che aveva provato per Dorotea ed anche per quella sua professionalità, prima elogiata e poi sminuita.

Erano le diciotto e quel convoglio era giunto al capolinea, l'ultima e definitiva fermata; con bagagli e zainetto sulle spalle, usciva dalla stazione e si avviava attraverso la via Roma alla volta di via San Giacomo.

In cuor suo temeva di aver deluso i genitori ed in quel camminare si sentiva un cavalier perdente; imboccata la via di casa, sentiva però ancor vivo il profumo del pane di quel panificio Plozza e dai camini di quelle case uscivano profumi di cene, povere ma nello stesso tempo ricche di semplicità.

Giunto davanti a casa, bussava alla porta ed ecco prontamente che la madre apriva, con commozione abbracciava il figlio e lo ringraziava per quella visita inaspettata ma sempre graditissima.

Dagli occhi del figlio e dai tanti bagagli che aveva con sé, comprendeva immediatamente che qualcosa non andava.

Anche il padre udendo la voce di Giovanni si era recato nella piccola anticamera e salutandolo gli chiedeva subito spiegazioni.

Era stata quella una lunga cena, dove il dottore commercialista aveva vuotato il sacco sfogandosi con i genitori, domandava loro continuamente di scusarlo per non essere stato capace di realizzarsi e non aver dato vita a quella laurea.

I due comprendendo il dolore umano e professionale del figlio ben se ne erano guardati dall'accusarlo, al contrario lo avevano rassicurato non attribuendogli colpe. E così alla fine di quella serata il padre chiedeva a Giovanni di seguirlo, pochi passi verso quella che un tempo era stata la stalla annessa all'abitazione e con orgoglio, quel buon padre seguito anche dalla moglie, mostrava al figlio cosa aveva restaurato per lui.

Non c'era più quella vecchia porta in legno con il tipico catenaccio, ma al suo posto una nuova con una targa riportante il nome ed il cognome del figlio e la dicitura dottore commercialista.

All'interno tutto nuovo, una scrivania delle scaffalature e tutto ciò che potesse servire a Giovanni per inaugurare la sua nuova attività, o meglio la sua nuova vita a Tirano.

Giovanni era rimasto estasiato, tutto realizzato in poco tempo da quelle mani artigianali del padre che ci aveva visto lungo.

Non aveva parole e si era sentito dire quasi coralmente da quelle due buone persone, che in cuor loro sapevano che un giorno tutto ciò sarebbe accaduto, non ci avevano mai visto chiaro in quella Dorotea e in quella grande impresa e nella loro umiltà speravano solo che quel figliolo non soffrisse.

Nei giorni successivi la voce del ritorno a Tirano del “figliol prodigio” si era fatta insistente e lui da quel suo nuovo studio aveva inviato lettere di presentazione della sua nuova attività a tutte le aziende, commercianti e artigiani, proponendosi come contabile.

Ben presto giungevano i primi clienti con i loro registri e fatture e così, visto anche quel nomignolo di “prodigio” che la sua maestra gli aveva attribuito, Giovanni si buttava a capofitto nel lavoro, persino una nota e grande azienda tiranese gli aveva affidato delle consulenze su investimenti da mettere in campo l'anno successivo.

Nei suoi occhi però aleggiava sempre un velo di tristezza, certo non aveva scordato Dorotea e l'amore che aveva provato per lei, un sentimento difficile da scordare nonostante tutto quello che aveva subito.

Si sarebbe almeno aspettato una risposta dalle lettere che aveva lasciato in quegli uffici milanesi ma nulla, non era mai giunta mai arrivata nessuna missiva.

Si sentiva però fortunato ad avere quei genitori che ancora una volta avevano fatto tanto per lui e che dal suo ritorno lo coccolavano con ogni attenzione.

Quella stalla trasformata in un accogliente ufficio era l'ennesima dimostrazione di quell' affetto, per non parlare del resto.

Ogni giorno un pranzo e una cena ben lauti con quelle tipiche ricette della nostra tradizione, tutte le mattine camicie ed abiti stirati erano pronti nella sua camera e la sera la madre, dopo il lavoro passava in ufficio a fare pulizie.

Piano, piano sul volto di quell'uomo tornava il sorriso e giorno dopo giorno sentiva di realizzarsi nuovamente anche professionalmente.

Era passato un anno da qual suo nuovo e definitivo ritorno a Tirano, il lavoro proseguiva a gonfie vele e Giovanni, nel tempo libero aveva ritrovato quelle vecchie amicizie d'infanzia, i coscritti e pure quella Maria, sua vicina di banco in quell'aula di palazzo Credaro. Si era fatta donna ed era pure carina ma il “figliol prodigio”, non le riservava grandi attenzioni nonostante gli amici gli dicevano che Maria si era invaghita di lui.

Troppo era lo scotto pagato per l'amore evidentemente fintamente corrisposto da Dorotea per pensare ad una nuova storia.

In quel tempo, ormai il Natale era alle porte, nella casa, i genitori avevano fatto il solito bel presepe e l'albero in attesa del grande giorno di festa.

Alcuni giorni prima, Giovanni aveva fatto spese, acquistando degni regali per i suoi cari mamma e papà, nutriva per loro un sentimento di affetto e stima che andava ripagato per ciò che avevano fatto e continuavano a fare per lui ogni giorno.

In quella sua uscita, quasi come al solito era passato nell'edicola del paese per prendere il quotidiano ed un rotocalco economico nazionale che veniva diffuso settimanalmente.

Era stato proprio sfogliando quel giornale che un titolo gli era balzato agli occhi:

“La nota impresa milanese Rossi è fallita”. Ancor più eloquente era il sottotitolo:

“Arrestati e condotti presso San Vittore i coniugi Rossi, sconcerto nel mondo finanziario meneghino, il crollo di un impero, la figlia irreperebile”.

Preso dall'ansia, Giovanni leggeva d'un fiato l'ampio reportage con tanto di foto di quelli che dovevano essere i suoi suoceri e di Dorotea. Subito come un ricordo ancora ben vivo, gli erano tornati alla mente i suoi moniti sugli ammanchi finanziari e quelle parole sicure atte a tranquillizzarlo.

In particolar modo, il pensiero era andato a Dorotea, perchè si era resa irreperibile, dove era e come stava?

Il pezzo giornalistico parlava inoltre di pignoramenti di tutte le proprietà dei Rossi, ma sembrava che dalle indagini in corso, proprio Dorotea non poteva essere penalmente perseguibile, veniva descritta come una vittima dell'arrivismo dei genitori, plagiata da questi e usata per far colpo proprio su un affarista che si era rivelato, con alcuni compari, l'artefice di tanti promessi investimenti sicuri e redditizi per i Rossi.

Peccato che era tutta una farsa a cui proprio i Rossi avevano abboccato nonostante la loro riconosciuta capacità manageriale che comunque li aveva resi non vedenti sino in fondo. Erano caduti vittime di un sistema subdolo capace di promettere loro, solo sulla carta, ulteriori ricchezze.

Giovanni aveva capito tutto al volo, quell'uomo che si presentava sempre più spesso dai Rossi seguito da altri collaboratori, oltre ad accompagnarsi con Dorotea, si voleva impossessare di quell'impero e ci era riuscito. Si trattava solo di tempo, bastava che il Tribunale emettesse la sentenza di fallimento e costui senza scrupoli, avrebbe messo le mani su tutto. E così era stato.

Il “figliol prodigio”, una settimana prima di Natale ne aveva parlato con i genitori, questi lo avevano sconsigliato nel suo tentativo di tornare a Milano per vederci chiaro, gli avevano detto di starsene fuori, non era più affar suo e soprattutto non doveva essere compromesso in vicende dai torbidi riscontri che avrebbero inficiato anche la sua persona.

Era la sera del 23 dicembre, il padre sonnecchiava sul divano, la madre rassettava la cucina ed il figlio con una certa e palpabile angoscia, sfogliava nervosamente il quotidiano.

Regnava il silenzio, dalla cucina proveniva il profumo della camomilla fumante e proprio mentre i tre si apprestavano a bere quell'infuso, dalla porta sentivano un battere affannoso ed incessante.

Giovanni era corso all'ingresso e aprendolo si era trovato davanti proprio Dorotea. Era pallida, struccata, quasi disordinata pure nel vestire, pochi i bagagli che aveva con sé. Si era creato un palpabile imbarazzo sui loro volti, le parole tardavano ad arrivare da entrambe le parti. Ma ecco che giunta la madre questa rompeva il silenzio dicendo al figlio: “Che fai non la lasci entrare”?.

La ragazza che aveva perso lo smalto di un tempo, si sentiva imbarazzata ed in dovere di dare spiegazioni. I tre, vedendola infreddolita la facevano accomodare davanti al camino e mentre iniziava a vuotare il sacco, la madre di Giovanni le aveva preparava una semplice ma buona zuppa con brodo di carne e pane di segale, Dorotea era pure affamata.

Giovanni, ripresosi un po' da quell'iniziale imbarazzo le diceva che sapeva già tutto ammonendola di non averlo mai ascoltato. Dorotea con le lacrime agli occhi, asseriva di essere caduta in un meccanismo ben più grande di lei e pure dei suoi genitori che stavano vivendo le feste tra le sbarre privi di ogni proprietà e denaro, era stato tutto confiscato.

D'un tratto Giovanni, le diceva:

“Ed ora sei qua, sei in quella casa che nelle nostre brevi e passate visite a Tirano ti calzava stretta, tra queste mura ti sentivi sminuita e ti eri anche permessa di criticare la semplice vita dei miei. Ricordati che loro hanno fatto tanto per me, con l'umiltà che li contraddistingue mi hanno pure ridato in mano il mio futuro. Adesso devi solo dirmi quali sono le tue intenzioni, ma ricordati che io non dimentico nemmeno il tradimento con colui che vi ha portati alla rovina, quello è stato per me la più grave mancanza di rispetto subita”.

Nell'ascoltare quei toni duri e non consoni alla pacatezza del figlio, il padre lo aveva fissato dritto negli occhi e con un certo piglio, si intrometteva nel discorso:

“ Giovanni non vedi che questa donna ormai è padrona solo delle vesti che indossa? Io non sono qui a giudicare i tuoi sentimenti verso di lei e quanto è successo, ma se è tornata qui è perchè è angosciata, sola e senza nulla. E' tuo e nostro dovere darle ospitalità ed incoraggiarla, vorresti che passi un Natale in mezzo alla strada, oppure cerchi di ritrovare un minimo di serenità tra queste mura?”

Giovanni asserendo con un cenno del capo alle sagge parole del padre, stringeva la mano a Dorotea, la quale non smetteva di piangere e chiedere scusa.

A stemperare un poco quella situazione ci aveva pensato la mamma, che in fretta e furia si dava da fare per fare un letto a Dorotea.

Conclusa questa operazione, i due genitori con la scusa di essere stanchi, andavano a letto lasciando i due soli nelle loro discussioni, salutandoli dicevano loro che la notte avrebbe portato consigli.

Giovanni e Dorotea in quella lunghissima notte avevano parlato molto, avevano preso sonno su quel divano solo verso il mattino.

La mamma ed il papà, sempre mattinieri, uscendo dalla loro camera in quella vigilia di Natale, avevano sorriso guardandosi negli occhi, Giovanni e Dorotea dormivano abbracciati sul divano. Dagli occhi chiusi del figlio già vedevano quel pezzo di felicità che gli mancava per sentirsi veramente felice. Se saran rose fioriranno o meglio rifioriranno.

Era stata quella una vigilia di Natale ed un Natale felici, con una scusa Giovanni era uscito per prendere un regalo a Dorotea, questa con ritrovata mestizia aveva iniziato a familiarizzare con quelle due buone persone. Era sin troppo chiaro, palesemente evidente che dagli errori cominciava a capire e ricercare un senso di serenità, magari difficile da ritrovare nel breve tempo, ma sicuramente da ricostruire in quella Tirano, in quella via San Giacomo e in quegli affetti semplici e veri in cui il Dio denaro e gli affari, non erano la cosa principale.

Buon Natale!

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