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4^ parte - Le calamità del 1987 in Valtellina

CULTURA E SPETTACOLO - 24 03 2017 - Ezio Maifrè

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Questo scritto di Ezio Maifrè, diviso in diverse puntate, è dedicato alle 53 vittime delle calamità che si abbatterono nell’estate dell’87 in Valtellina e ai giovani, perché non dimentichino il “male antico” della valle.

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Parte 1Parte 2, Parte 3

 

Parte 4

In quel venerdì 17 luglio 1987 i giovani, spaventati nel sentire raccontare ”l’antico male” della valle dissero ai vecchi:” basta, tacete, voi portate disgrazie !”

I vecchi finalmente tacquero facendosi il segno di croce.

 

Quale poteva allora essere lo scudo di difesa di fronte a tali disastri? I nostri padri a difesa di questo “ antico male “ pregavano e confidavano nella provvidenza divina; per questo avevano eretto chiese dove erano avvenute le sventure. In aggiunta celebravano nelle chiese di paese gli “ ottavari” per implorare protezione contro frane e alluvioni.

 

Chi conosce la storia della nostra valle, sa che la natura è benigna per le meraviglie delle montagne e per i fertili terreni, ma sa anche che alcune volte essa è matrigna e porta lutti a causa dell’“ antico male“.

Chi ben conosce il nostro territorio sa che molti nomi di luoghi, di torrenti, sono ispirati alla loro natura.

Guai dimenticarsi di questi toponimi! Costruire case su questi luoghi significa andare incontro a sventure certe.

Alla fine la forza della natura riprenderà ciò che le è stato tolto.

 

In quel venerdì 17 luglio ’87 , giorno in cui i giovani avevano zittito i loro padri nel racconto di sventure , loro stessi sarebbero stati testimoni di una terribile alluvione da raccontare ai loro figli.

Da due giorni la Protezione Civile e la Prefettura di Sondrio erano all’erta.

 

Dalle valli Bergamasche grandi ammassi nuvolosi pregni di pioggia raggiungevano velocemente le Alpi Orobiche e, come fermati da mani invisibili, sostavano sulla nostra valle non riuscendo a superare la barriera delle alpi retiche. Cupe e pregne esse scaricavano furiosamente il loro fardello d’acqua.

 

Le prime avvisaglie della sventura che si sarebbe abbattuta sulla Valtellina giunsero dalla Bergamasca. Laggiù era già iniziato a piovere in modo furibondo il giorno innanzi.

 

I fiumi Brembo e Serio, resi gonfi dai loro torrenti, erano usciti dagli argini e avevano allagato vaste zone. La val Brembana fu la prima ad essere colpita; molte persone furono evacuate dai loro bei paesini di montagna e vi furono due morti.

 

In Valtellina però nessuno aspettava la sventura. Si sa! E’ meglio pensare alle gioie che ai dolori. “Tutti al mare” avevano gridato i ragazzi pieni di gioia di vivere e molte famiglie erano già partite.

Chi rimaneva in valle scrutava pensieroso il cielo.

 

La sera prima, alla televisione, tutti avevano sentito le previsioni del tempo; avevano visto disegnate quelle strane curve, quelle linee a cerchio fitte indicanti le zone di bassa pressione concentrate e incombenti proprio sulla nostra valle. Quei simboli a forma di goccia indicanti forte pioggia erano indice di preoccupazione.

 

Nuvole come macigni

Macigni!

Come macigni le nuvole scure,

dense di pioggia,

adombrano la valle.

Risalgono e inghiottono ogni cosa

in un tetro paesaggio

da Purgatorio.

Ecco, la pioggia è arrivata!

Il furioso scrosciare d’acqua

dalle gronde dei tetti,

tra il bagliore dei lampi

e il rimbombo dei tuoni,

ammutolisce i vecchi

e inquieta le bestie.

 

La Prefettura aveva diffuso un comunicato d’allarme per forte maltempo con pericolo di frane sul territorio. Si taceva, si aspettava.

 

Al mattino del 17 arrivarono, come previsto, le prime avvisaglie di un'anormalità, di un’eccezionale intensità di pioggia anche in Valtellina; la valle incominciò a vibrare sotto piogge monsoniche proprio sui monti della Val Caronella e della Val Bondone. Stava arrivando dalla Bergamasca la fortissima perturbazione annunciata dalla Prefettura.

 

Il venerdì 17 luglio piovve tutto il giorno; il terreno in poco tempo fu inzuppato d’acqua, non bevve più nemmeno una goccia e si arrese.

 

L’acqua incominciò ad invadere i prati; scorreva sopra l’erba con il terreno che non drenava più una goccia; correva in ogni luogo in piccoli ruscelli per poi riunirsi e farsi strada in fossi da tempo abbandonati e ora riscoperti dall’acqua fattasi melmosa, densa di detriti.

L’acqua ora si impossessava prepotentemente dei suoi territori antichi, trascinando con sè tutto ciò che l’uomo e la natura avevano posto d’intralcio alla sua corsa.

 

Queste sono le avvisaglie delle catastrofi che sono conosciute da sempre e da sempre dimenticate nei tempi tranquilli e lieti.

Quante volte si era sentito dire, dopo le alluvioni e le frane, che occorreva prevedere un’attenta gestione del territorio e che occorreva anticipare gli eventi!

 

Come dicevano i nostri vecchi ” dal dire al fare c’è di mezzo il mare!” Si erano fatte tante parole e pochi fatti; morti i vecchi che sapevano curare il territorio, i giovani avevano sussurrato senza troppo scrupolo:” la terra è bassa, lavorarla è fatica, meglio lavorare in fabbrica!”

Parecchi si erano lavate le mani dicendo che spettava ad altri intervenire e la palla delle responsabilità era passata di mano in mano. Era troppo pesante da palleggiare, era poco rotonda anzi spigolosa ed era caduta per terra abbandonata.

I progetti dormivano nei cassetti.

 

Era evidente! Innumerevoli volte l’uomo aveva fatto i suoi interessi violentando e trascurando la natura; aveva posato senza fine asfalto in luoghi dove prima v’ erano prati e aveva costruito case senza soluzione di continuità.

I maggenghi erano stati trascurati, abbandonati.

 

Si sa che per lavorare la terra occorre chinarsi, anche se costa fatica. Ma quei lavori trascurati dovevano essere comunque fatti, qualcuno doveva pur sacrificarsi ! Qualcuno doveva però capire che quella fatica andava incoraggiata, premiata; non tanto per rendere giustizia al lavoratore, ma per salvare i beni comuni.

Si! Proprio così ! Anche per salvare la casa dell’uomo seduto alla scrivania in un comodo ufficio costruito dove prima vi era l’alveo di un torrente o sotto i muri a secco dei vigneti.

 

Ecco quel che era successo! Sui monti l’erba era cresciuta senza cura, pochi avevano tagliato il fieno e curato i prati ; non erano stati puliti i boschi dal fogliame, i canali di scolo delle acque erano stati dimenticati.

Era così naturale ! Quel lavoro non pagava, sembrava poco gratificante, poco conveniente farlo!

E ora ? Ora la natura si stava vendicando; ora l’acqua scorreva veloce sull’asfalto riunendosi in rivoli e pozze, i tombini erano intasati, allagati e non riuscivano più ad inghiottire la massa d’acqua.

 

A lato delle strade asfaltate si formavano torrenti d’acqua che, ingrossati e furiosi, si gettavano improvvisamente nei boschi, nei vigneti, in luoghi non adatti a ricevere l’acqua causando smottamenti. Si vedeva l’acqua scorrere tumultuosa nei vecchi canali di scolo, abbandonati da anni e intasati di legname e fogliame.

Si formavano così piccole dighe che crollavano di colpo aumentando la furia distruttrice dell’acqua.

 

Qualcuno aveva gridato “Colpa nostra ! I nostri vecchi per anni e anni con il loro lavoro giornaliero avevano curato la natura. Ognuno allora si assumeva il compito di guardare la sua parte di terra e quando pioveva a dirotto si ispezionava il territorio intervenendo tempestivamente prima che le cose precipitassero e provocassero danni”.

 

Chi gridava queste cose era forse la gallina che aveva fatto l’uovo ? Era vero ma non del tutto. Quei sacrifici senza nome dei nostri avi avevano salvato parte del nostro territorio; purtroppo però le frane, le alluvioni in tempi passati e lontani , erano avvenute anche in luoghi dove l’uomo aveva avuto il massimo rispetto per la natura, solo che la natura doveva fare il suo corso, trovare il suo equilibrio in questa valle d’alti monti e di pendii ripidissimi.

L’uomo, si sa, giudica molte volte frettolosamente e per suo tornaconto; fa ricadere le colpe dove ben gli conviene.

 

La sera del giorno 17 i fiumi si erano fatti grossi e scuri di terra. Il torrente Madrasco a Fusine iniziava a trascinare con sé terra e sassi, lo stesso faceva il Torreggio a S. Maria. A Tirano il Poschiavino era tumultuoso e biancheggiante, segno che il lago di Poschiavo era pieno al pari d’un uovo. L’Adda invece, scura e rumorosa, si faceva sentire a Tirano passando a saetta tra i poderosi argini fatti costruire dagli Austriaci.

 

Ma da dove veniva tutta quest’acqua ?

Prima c’era stato il gran caldo e ora cadeva una pioggia torrenziale! Nessuna diga aveva ceduto in valle e a gonfiare oltremodo i 16 fiumi della Valtellina erano stati 160 torrenti divenuti impetuosi.

Il Frodolfo in Valfurva, alimentato dall’acqua dei ghiacciai dilavati dal caldo e dalla pioggia monsonica , portava con sé, oltre a detriti, anche alberi sradicati dalle frane.

 

La pioggia in quel giorno non cessò mai un momento: non vi fu ruscello, non vi fu torrente nè fiume che in valle non facesse violenza alla natura. Fu proprio così! La natura fece violenza a se stessa. Forse no! Forse la natura si stava riprendendo con forza ciò che le apparteneva.

Ruscelli e fiumi riscoprivano i loro vecchi percorsi deviati dall’interesse dell’uomo; riscoprivano i loro anfratti, le loro piane; trovavano al posto del loro alveo, case, strade, stretti e striminziti ponti, argini senza senso!

 

L’arroganza e l’interesse dell’uomo aveva voluto impossessarsi della terra non sua.

Mentre le frane scendevano una dietro l’altra come agili serpenti dai ripidi pendii, sembrava che la natura gridasse: “Uomo stai in guardia! Rendimi ciò che mi hai rubato senza diritto e non piangere del male che tu stesso ti sei fatto.”

 

(Continua... )

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