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Aspettando il Natale

CULTURA E SPETTACOLO - 04 12 2020 - Ivan Bormolini

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/Tirano, la facciata della stazione
Tirano, la facciata della stazione

“Cari lettori, lo scorso anno durante il mese di dicembre, avevo pubblicato la traduzione di alcune poesie e racconti del Natale tiranese d'altri tempi. Lazzaro “Cici” Bonazzi, Aldo Pola, Dante Tozzi e Ezio Maifrè, in quel bel scrivere nel nostro dialetto, ci avevano fatto rivivere quelle semplici atmosfere tra le case e le corti delle contrade nel giorno di festa.

Quest'anno ho deciso di scrivere una serie di piccoli racconti, dove persone, luoghi e fatti sono puro frutto della mia fantasia.

Il tutto rimanendo fedele ai Natali di quel paese di Tirano dei tempi andati; non saranno queste mie narrazioni legate ai regali materiali, che in quelle epoche di miseria erano rarissimi, ma si incentreranno su aspetti di umanità, ritrovata serenità e pace. Valori che in misura diversa dovremmo riscoprire anche oggi, in quest'epoca moderna, dove soprattutto in quest'ultimo anno  obiettivi che pensavamo di aver raggiunto, stanno divenendo motivo di incertezza, fragilità umana e materiale.

Come sempre pubblicando questo mio piccolo e  banale umile inventare , vi auguro una buona lettura, ricordando che gli appuntamenti a partire da oggi saranno per qualche venerdì di questo mese di dicembre”.

 

Ivan Bormolini

 

La chiamavano la matta della stazione di Tirano

( Di I. Bormolini ) Era da poco finita la guerra in quella Tirano del 1945. Ginetto, sembrava sempre più irrequieto, giovane e forte non vedeva un futuro nel paesello.

Aveva perso il padre in tenera età e la madre Luisa faceva di tutto per mettere d'accordo il pranzo con la cena.

La loro casa in via San Carlo cadeva a pezzi e quel campo giù alla “Giustizia”, pur amorevolmente coltivato, non dava loro grande sostentamento.

Luisa faceva la “serva” da un signore locale ma la paga era quella che era, lo stesso Ginetto non se ne stava certo con le mani in mano e pur giovanissimo si adattava a qualsiasi lavoro che gli venisse offerto, anzi con ansia andava a cercarlo. Tuttavia la scarsità proprio di un impiego in quell'epoca così incerta, non consentiva al ragazzo di poter realizzarsi o quanto meno pensare a delle certezze.

Così una sera, comunicava alla madre e alla zia Lina, l'intenzione di emigrare in terre lontane. Aveva racimolato qualche soldo, giusto il necessario per pagare ed affrontare quel viaggio verso l'ignoto.

La madre sconcertata per quella decisione al pari della zia, aveva fatto di tutto per cercare di fare ragionare quel figliolo ma il suo intento era irremovibile. Ormai la decisione era presa e nemmeno qualche coetaneo era riuscito a persuaderlo; voleva partire per quella terra promessa e guadagnare i soldi così da garantire alla mamma e alla zia una vecchiaia dignitosa, inviando loro il denaro anche per sistemare quella catapecchia che suo nonno e suo padre avevano costruito con enormi sacrifici e privazioni di ogni genere.

 

Così una mattina all'alba salutava tutti e con una valigia di cartone contenente quattro stracci e tenuta assieme da una corda partiva.

La madre, desiderosa di farlo desistere sino all' ultimo, straziata dal dolore e piangendo, lo aveva accompagnato alla stazione, salutava con grande malinconia quel figlio frutto dell'amore con il marito che troppo presto li aveva lasciati.

Passava il tempo, mesi e mesi senza alcuna notizia di Ginetto, ormai un anno e mezzo che pareva esser stato lungo come una vita era trascorso, ma da Ginetto di nessuna lettera, in Liusa riecheggiavano sempre nelle orecchie le ultime parole del figlio: “mamma non ti preoccupare, un giorno tornerò”.

Dopo tanto altro tempo, finalmente era giunta una missiva dalla lontana America. Ginetto scriveva che stava bene e che pur di guadagnare aveva fatto molti lavori tutti estremamente faticosi e privi di soddisfazioni.

Questi gli avevano consentito di guadagnare una piccola somma che in larga parte spediva a Tirano, si era persin scusato per l'esiguità di quel denaro, ma asseriva che per fortuna aveva trovato un impiego fisso ed una paga stabile in una grande officina meccanica.

 

Nel passare delle stagioni, la corrispondenza da quella lontana terra avveniva sempre con maggior frequenza, Ginetto si era trovato un piccolo appartamento in cui vivere ed anche le somme di denaro inviate aumentavano.

La madre, che sempre faceva la “serva” e coltivava quel campo di famiglia, non tratteneva per sé alcuna lira inviata dal figlio, metteva tutto da parte la fine di rimettere a posto la casa nella speranza che un giorno quel figlio, una volta tornato avrebbe potuto godere del suo sacrificio.

Erano passati anni, ormai anche la zia che tanto bene voleva a quel nipote aveva lasciato la vita terrena, quella buona donna con tutti i soldi necessari era riuscita a dar vita al desiderio di Ginetto, ovvero ridare nuova luce a quella casa di famiglia in via San Carlo.

Nella corrispondenza tra madre e figlio, la prima gli scriveva di tornare, che il suo desiderio era compiuto, ma Ginetto, ben conoscendo la mamma, sapeva che quell' umile donna non si era trattenuta nemmeno una lira per se e per la sua vecchiaia. Di conseguenza le scriveva che sarebbe rimasto in quella grande officina ancora per del tempo, raccomandandosi con Luisa di mettere da parte quanto a lei inviava per la sua vecchiaia.

 

La donna appurando la decisione del figlio e vedendo la sua età avanzare era lentamente caduta in una sorta di depressione, i nostri vecchi la chiamavano in dialetto “la pacundria”, quell'ansia che ti prende la mente e il cuore.

Aveva scritto al figlio che ormai anche a Tirano i tempi erano cambiati, che poteva tornare e che il lavoro non mancava. Ma nello stesso tempo aveva messo in atto un atteggiamento che per gente di Tirano era parso insolito.

Ogni mattina, dopo la messa prima, si recava alla stazione per guardare quel primo treno partire, poi si andava al lavoro, all'ora di pranzo ritornava  su quella panchina marmorea, si sedeva e guardava il convoglio che arrivava.

La sera, sino al giungere di quell'ultima corsa faceva la stessa cosa. In se la vana speranza di veder quel figlio scendere e poterlo riabbracciare.

 

Il tempo trascorreva, i capelli di Luisa, sembravano indicare il grigiore della sua età e la trascuratezza in cui era caduta, i solchi sulle labbra e sulla fronte erano segno della vecchia che giungeva. Gli abiti umili e sempre più logori lasciavano ulteriormente trasparire la sua condizione.

Nelle domeniche dell'anno, libera da ogni impegno lavorativo e sempre dopo la messa di buon mattino, stava tutto il giorno alla stazione, nel giorno di festa portava con sé il Santo Rosario e su quella fredda seduta lo recitava guardando i treni partire ed arrivare.

La cosa non era caduta inosservata ai capi stazione i quali, soprattutto nella stagione invernale, la invitavano a sedersi nella più calda sala d'aspetto interna. Ma nulla, non c'era niente da fare e chi non conosceva la sua storia, l'aveva battezzata la “matta della stazione”.

E così era stato per lungo tempo, tanto che Luisa era divenuta per molti proprio la “matta della stazione”, forse una sorta di arredo di quel luogo crocevia di tante genti che la ignoravano.

 

La questione o meglio la condizione di Luisa, cominciava però a destare scalpore: sempre più magra, quasi denutrita e ormai priva di un lavoro che le potesse garantire sostentamento, persino  dopo la chiusura dei cancelli della stazione nelle ore notturne, Luisa non faceva ritorno alla sua dimora, ma si accasciava poco lontano nella febbrile attesa che quegli ingressi fossero riaperti.

L'insistente voce di popolo, quella della bonaria gente comune, aveva avvisato pure la pubblica amministrazione. E così questa era intervenuta cercando di persuadere Luisa dall'abbandonare quella sua ormai fissa dimora.

Nei vani tentativi atti a farla ragionare, a nulla era valso persino l'intervento del sindaco e del prevosto, ad ogni loro visita essa gridava che doveva aspettare suo figlio Ginetto.

Si era pensato ad un ricovero nei manicomi di allora, magari fruendo di quelli che oggi chiamiamo per vari motivi ricoveri coatti.

Le guardie municipali del tempo assieme ai Carabinieri, avevano fatto ingresso in quell'ormai bella ma abbandonata casa di via San Carlo, molta era la corrispondenza che giaceva nella cassetta postale e dopo un controllo risultava che il figlio le inviasse buone somme di denaro sempre con la solita casuale “per la tua vecchia”.

 

A quel buon ufficiale municipale e al maresciallo, erano cadute all'occhio soprattutto le ultime lettere del figlio, dove chiedeva alla madre con un certo allarmismo il motivo delle sue mancate e ormai molteplici non risposte.

Da qui una decisione forse più umana che legale. Sindaco, maresciallo e capo delle guardie municipali, sentito pure il parere del parroco, erano intervenuti.

Sapendo l'indirizzo americano di Ginetto, i quattro nel giugno di quell'anno avevano redatto, e inviato una lettera al figlio con tanto di firme, spiegandogli senza troppi veli la situazione.

Nello stesso tempo, pur considerando le enormi distanze, non era stata tardiva la risposta dell'emigrato che invitava gli scriventi ad agire per il bene di sua madre, prima di un suo imminente quanto indispensabile ritorno. Sarò io, scriveva Ginetto ad occuparmi delle spese da voi sostenute al fine di curare con tutti i modi mia madre”.

 

In quella lettera vi era pure contenuto un accorato messaggio per la mamma con preghiera di farsi aiutare.

Ed era stato così; proprio il primo cittadino in quella nostra stazione, aveva consegnato quelle parole a Luisa.  Lei piangente, ormai allo stremo, con mestizia accettava l'aiuto offerto e si faceva ricoverare non in un manicomio, ma nel nostro ospedale di Tirano.

Medici, infermiere e una tanto buona suorina, si erano presi cura di Luisa, della sua salute mentale e fisica. Alcuni tiranesi si chiedevano che fine avesse fatto la “matta della stazione”, che per fortuna, s tra quegli stanzoni dell'ospedale sembrava riprendere le forze. I medici avevano appurato che la sua decisione di non più abbandonare la stazione, era scaturita dal fatto che lei vedendosi invecchiare aveva paura di non rivedere più il figlio. La sua mente era tormentata proprio da quel pensiero e questo le aveva fatto scordare tutto il resto.

Nel frattempo tra l'America e Tirano la posta si faceva sempre più fitta. Ginetto scriveva al sindaco che sarebbe tornato molto presto ed oltre a ringraziare tutti per essersi presi cura della madre, allegava sempre delle lettere anche per lei e questa dalla lettura ne traeva giovamento.

 

Nell'ultima missiva dagli Stati Uniti, quell'ormai provetto meccanico diceva al primo cittadino e al prevosto che sarebbe arrivato a Tirano nella giornata dell'otto dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione con il treno pomeridiano. Asseriva che aveva preso la decisione di rimanere per sempre e di volersi trovare un lavoro nel paese. Diceva che appena sceso dal treno sarebbe corso in ospedale a riabbracciare la madre e che da qual momento si sarebbe preso cura di lei. Per far gradita sorpresa a quella ormai anziana donna, si sincerava con il sindaco e con il prevosto di non dirle nulla.

Ma quei due buoni uomini, uno valente amministratore e l'altro estremamente vicino alle anime dei parrocchiani, avevano seguito con tante visite l'evolversi delle condizioni di salute di Luisa. Così, ben ascoltando il parere dell'allora primario di medicina, che dava ormai per definitivamente guarita la paziente, avevano pensato a qualcosa di più, doveva essere Luisa ad accogliere e riabbracciare quel figliolo ed insieme a lui tornare nella loro casa.

 

Era così partita una semplicissima quanto umana macchina organizzativa: il prevosto aveva chiesto ad alcune donne che già si occupavano della pulizia delle chiese tiranesi, di dare una profonda sistemata a quella casa di via San Carlo, chiedendo loro di preparare una degna cena per quella sera dell'otto dicembre, il tutto per soli due commensali.

Nel frattempo il sindaco, che aveva sott'occhio la situazione dei possibili impieghi tiranesi, aveva chiesto ad un noto imprenditore locale, impegnato per la sua attività anche nel campo della meccanica, se vi era la possibilità di un impiego stabile.

Quest'ultimo che proprio in quegli anni era in piena espansione, ragguagliato dal sindaco sulle  esperienze professionali di Ginetto, decideva di dare a quel ragazzo divenuto uomo, l'assunzione a partire dal nuovo anno alle porte.

Ma ormai il tempo dell'arrivo di Ginetto era imminente, mancavano davvero pochi giorni. L'uomo di politica e quello di fede, certo non potevano far giungere alla stazione la signora Luisa in vesti poco consone.

E così, mantenendo fede all'impegno di utilizzare le risorse inviate da Ginetto per la cura della madre, incaricavano una parrocchiana amica di Luisa, di andare in merceria e acquistare tutto il necessario.

Tutto ormai era compiuto, ben pochi e poche sapevano e dovevano sapere, doveva essere una piccola cerimonia intima, lontana dai clamori.

 

Dopo il pranzo in ospedale, le infermiere e la suora con la complicità di una buona parrucchiera, ridavano a Luisa un'immagine che la faceva sembrare addirittura più giovane.

Essa non capiva, riempiva tutti di domande, ma alla fine invitata a guardarsi allo specchio, aveva abbozzato un sorriso.

Alle quindici e trenta, si presentavano sull'uscio di quel camerone, ormai una casa per Luisa, il sindaco e il prevosto con quel lungo abito nero e il tricorno in capo, con loro il primario non più con quelle solite vesti ospedaliere, ma in giacca e cravatta.

Quest'ultimo consegnava a Luisa la lettera di dimissioni, ma questa continuava a non capire cosa mai stesse succedendo, chiedeva dove sarebbe andata dopo quel lungo e più che mai proficuo ricovero.

Tutti tacevano, gli occhi delle infermiere e della suora parevano lasciar scendere gocce di luce dai loro occhi, sino a quando il sindaco diceva  a Luisa di seguirla assieme al prevosto.

Povera donnina, aveva percorso la via Pedrotti in silenzio, si fidava ciecamente di quel sindaco e di quel prevosto, che in tanto tempo mai avevano mancato di farle visita.  

 

In sé rivedeva quella Tirano che aveva scordato dopo il lungo ricovero. Una volta vista la facciata della stazione in Luisa compariva un tremore, un'ansia e forse ancora quella “pacundria” che per tanto tempo aveva invaso la sua mente.

A pochi passi dal trio comunque quel primario li seguiva, vedendo la situazione interveniva prontamente rassicurando Luisa.

Varcato il cancello, il sindaco indossava la fascia Tricolore e la campanella che annunciava l'arrivo del treno iniziava a suonare.

Poca la gente presente, per lo più non interessata, ed eccolo finalmente quel serpentone metallico giungere stridente nel suo frenare all'ultima corsa.

Dalla carrozza centrale scendeva Ginetto, pareva un pulcino bagnato nel gelido freddo di quel giorno di festa.

Era stato quello un abbraccio commovente tra madre e figlio, tutti stavano zitti ed erano emozionati, quel tempo che per Luisa sembrava essersi fermato a quando la chiamavano la “matta della stazione”, ricominciava a scorrere e quel binario che pareva esser morto dopo la partenza del figlio, in quell'otto dicembre era divenuto nuovamente vivo.

Dopo il ringraziamento a tutti da parte di Ginetto, i due si incamminavano verso la loro casa, iniziava un nuovo futuro. Davanti a quell'inaspettata e ben preparata cena, madre e figlio avevano parlato sino a tarda ora. La felicità era ritrovata, ed il giorno dopo, insieme andavano per muschio, come facevano quando Ginetto era piccolo.... Nei giorni successivi avrebbero ridato vita a quel presepe per anni rimasto sepolto con tutte le statuine in soffitta. Luisa non lo aveva più rifatto in quei Natali senza il figlio.

Buon Natale!

 

 

L'immagine di copertina è stata realizzata da Ivan Bormolini

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