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Distruggiamo il Sessantotto

CULTURA E SPETTACOLO - 05 01 2019 - Alessandro Cantoni

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/femministe

Femministe e volgari agitatori di piazza hanno cancellato tradizioni e identità individuali e collettive. Ma una via di mezzo tra paternalismo e rivoluzione esiste. Ce lo spiega Eva Feder Kittay.

 

Da principio, si potrebbe parlare di due livelli di analisi.

Ad un primo impatto sembra impossibile non distinguere una Kittay fastidiosamente progressista. A un secondo livello, tuttavia, emergono delle riflessioni interessanti e certamente degne di nota. Eva Feder Kittay, filosofa americana, nella sua opera magistrale Love’s labour - Essays on Women, Equality, and Dependecy, tradotto in Italia dalla casa editrice Vita e Pensiero (La cura dell’amore - Donne, uguaglianza, dipendenza, 2010, €19,80) sostiene un’idea di uguaglianza che trascende i limiti del formalismo. Kittay non dimentica infatti di mostrare le contraddizioni interne a tale concetto.

 

Il suo pensiero è piuttosto legato ad una pretesa di pari opportunità tra gli esseri umani.

L’uguaglianza va intesa piuttosto come una equa redistribuzione dei poteri all’interno della società.

Questa particolare concezione va di pari passo alla volontà di abbattere ogni gerarchia morale all’interno di ciascun nucleo comunitario, sia esso costituito dalla famiglia, o dalla società stessa.

Questo abbattimento delle gerarchie morali non implica tuttavia una dissoluzione delle gerarchie sociali e, dunque, Kittay esclude l’uguaglianza di potere postulata dal sistema economico sovietico.

 

Mentre Kittay cerca di proporre una nuova etica della cura, una filosofia morale, non smette mai di muoversi nel solco della tradizione liberale. Anzi, è consapevole che i rapporti di diseguaglianza sono necessari e inevitabili, perché la dipendenza è un fattore connaturato alla esistenza umana. La diseguaglianza di potere dovrebbe perciò essere equilibrata. Per la studiosa si tratterebbe di una richiesta di bilanciare, equilibrare i poteri all’interno della famiglia e della società, al fine di riconoscere la dignità di chi svolge un lavoro di dipendenza, di colui/colei che si prende cura in senso stretto di un individuo non autonomo o parzialmente indipendente.

 

Colui che svolge questo love’s labour va riconosciuto moralmente dalla collettività, nonché giuridicamente ed economicamente da parte dello Stato.

 

MODERATO PROGRESSISMO

Se dovessi valutare le proposte di Kittay, mi sentirei di parlare di un moderato progressismo. La Kittay sostiene infatti che ad essere vittima di questo lavoro di dipendenza sottopagato e persino svalutato, svilito dalla società civile, sono le donne. Non soltanto a livello comunitario, ma anche all’interno di un contesto familiare. In un certo senso, e non a torto, ritiene che il lavoro di cura all’interno della famiglia – come a livello pubblico - sia svolto in particolare dalle donne. Certo, proporre un maggiore equilibrio è una proposta saggia. Ma occhio alle conseguenze sociali che tale fenomeno potrebbe generare. Se da un presunto equilibrio giungiamo ad uno sbilanciamento dei ruoli, avviene una perdita di identità, un completo abbattimento delle gerarchie sociali che dominano la civiltà. Avanzare pretese di pari opportunità è legittimo e sacrosanto, ma pretendere di contrastare l’ordine costituito sarebbe eccessivo. Oltre al moderato e sano progressismo di Kittay, vorrei ribadire l’importanza del conservatorismo. Molti hanno letto nelle parole di Kittay un progetto rivoluzionario, post-sessantottino. Fortunatamente non rientra nelle sue intenzioni. Stiamo in guardia però, perché dal progresso alla rivoluzione il passo è talvolta molto breve. Spieghiamo perché è importante mantenere le identità e perché spezzare tutte le tavole della legge sia un’idea scellerata oltre che controproducente.

 

Viviamo in un’epoca caotica, dove ogni cosa che ricorda l’ordine e la tradizione è in odor di paternalismo. A causa di questa visione esasperata, retaggio del Sessantotto, stiamo creando nuovi mostri, una civiltà disorientata, priva di radici e di fondamento, che non conosce più la giusta direzione. Padri che si ritrovano a fare da balia ai figli, madri emancipate e in carriera. Non che ci sia nulla di male se una donna avanza a livello professionale superando per qualità e intelligenza i suoi colleghi maschi, ma è svilente avere a che fare con ominicchi, disonorati dal senso di colpa per il solo fatto di essere nati col pistolino.

 

Mi ricordo una canzone di Giorgio Gaber, non proprio un destro sospetto di simpatie fasciste, I padri miei, i padri tuoi. Certo, diceva Gaber, i padri miei erano fascisti, prigionieri di un mondo fatto di valori, di tradizioni. Erano persino freddi, rigidi, ma ci hanno lasciato una traccia, un solco di una certa consistenza. Oggi il papà, o il mammo, è una figura colorata, gioiosa, svincolata, libera come l’aria. Ma terribilmente inconsistente, evanescente, vuota. Vogliamo veramente arrivare a questo? Pensiamoci. Io credo che nella vita, così come nella famiglia, esistano delle gerarchie, e queste vadano rispettate. Quello che invece il progressismo sta generando nelle coscienze dei più giovani è una crisi di identità, un mondo di fantasmi, di ominicchi vaganti e alquanto spaesati.

 

Equilibrare, armonizzare, sì, sono d’accordo con la Kittay. Ma vi prego, piantatela con questo Sessantotto dei miei stivali.

 

Alessandro Cantoni

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