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L'ammissione dei novizi e i rapporti tesi con la pieve di Villa

CULTURA E SPETTACOLO - 04 11 2021 - Ivan Bormolini

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/santa perpetua

(Di I. Bormolini) Gentili lettori e lettrici, siamo giunti alla conclusione di questa carrellata di articoli inerenti Santa Perpetua e San Remigio; mi rendo conto analizzando la totalità del materiale che ho consultato per proporre questa panoramica sulle vicende delle due chiese, che ben altri capitoli sarebbero meritevoli di ampie delucidazioni come ad esempio gli aspetti artistici, l'anno prossimo riprenderò nuovamente in mano l'argomento dandogli altro spazio all'interno delle mie rubriche.

In quest'ultima puntata, considerando il fatto che nelle due pubblicazioni di due settimane fa ho fatto cenni alla vita monastica, sempre grazie agli studi del professor Gianluigi Garbellini, ricorderò la cerimonia dell'ammissione dei novizi e un particolare che è emerso molto chiaramente ovvero i difficili rapporti con la pieve di Villa di Tirano.

Proprio un documento del 29 dicembre 1336, ci parla del momento cerimoniale dell'ammissione dei novizi: nella chiesa di Santa Perpetua, schierati davanti all'altare, per ordine e su convocazione dell'arciprete della pieve di Villa, Giovanni del Forno, il capitolo dei frati di San Remigio e Santa Perpetua, accoglieva in quella comunità i novizi.

L'arciprete, unitamente ai confratelli, su autorizzazione del decano di Tirano ed altri ufficiali del comune stesso, ricevevano nel monastero sei nuovi conversi:

Filippo de Longis detto Casascia di Poschiavo, Maffeo de Bianchis di Castione di Chiuro, Pagano di Teglio, Bertramo de Baresia di Teglio, Giovanni Rasche del monte di Stazzona e Pietro Ayroldi di Brusio, pronti a prendere i voti.

Questi postulanti, in ginocchio davanti all'altare, chiedevano espressamente di essere accettati come confratelli e quindi come monaci del capitolo per rimanervi e operarvi nell'interesse della comunità.

Al suono della campana, tutti i presenti in modo corale, li ammettevano al capitolo con il bacio della pace - cum osculo pacis - , si aggiungeva anche la consegna del panno dell'altare – pre pannum altaris -.

Al rito, o meglio nei momenti della celebrazione dello stesso, seguiva l'imposizione della berretta sul capo dei novizi da parte dell'arciprete di Villa.

Un secondo documento del 19 febbraio 1338, consente di apprendere che i novizi interessati uno per uno, prima di essere accolti, avevano promesso e giurato di osservare tutte le regole della comunità. Si sottomettevano ai lavori prescritti dalla regola monastica, vivendo in piena obbedienza.

Una volta ricevuto il bacio della pace dai confratelli e il panno dell'altare dall'arciprete, i novizi abbracciavano l'altare, al suono delle campane uscivano e rientravano in chiesa, erano così accolti definitivamente come monaci.

Alla cerimonia erano presenti autorità religiose e civili, questo consente di capire come l'ammissione di nuovi conversi non era da considerare solo come un fatto propriamente interno alla comunità, ma il tutto andava visto anche sotto il profilo pubblico.

Lo stato giuridico dei monaci trovava quindi legittimazione in campo civile godendo del pubblico riconoscimento.

I RAPPORTI TESI CON LA PIEVE DI VILLA

In questo frangente è bene anche analizzare quelli che erano stati rapporti della comunità monastica con la pieve di Villa; mentre leggevo la fonte mi è venuto da pensare al detto corsi e ricorsi storici. Se pensiamo alle tante pagine di storia che hanno legato i rapporti religiosi tra la pieve e arcipretura di Villa alla nostra comunità di San Martino in Tirano, la memoria scorre immediatamente al Cinquecento e alle lunghe diatribe tra “villaschi e tiranesi”, in merito all'indipendenza della nostra chiesa dell'arcipretura di Villa che in quel tempo ne aveva la giurisdizione.

Come avevo già ricordato qualche anno fa all'interno di questa mia rubrica, i protagonisti di quella vicenda erano stati Simone Cabasso, curato e poi primo parroco della parrocchia di San Martino, l'arciprete di Villa Landriani e il vescovo di Como Feliciano Ninguarda, quest'ultimo in particolare aveva elevato la chiesa di San Martino a Parrocchia, dirimendo almeno in parte, una questione che andava trascinandosi da anni, era il 1589. Era stato poi il vescovo Lazzaro Carafino nel 1629, incurante delle vivissime proteste dei residenti di Villa, a nominare la parrocchia di San Martino a Collegiata, si dava così al parroco il titolo di prevosto e Vicario Foraneo.

Ma torniamo ai fatti di Santa Perpetua e San Remigio, quindi circa a ben tre secoli prima: in buona sostanza i rapporti con l'autorità diocesana, alla quale il monastero era sottoposto, erano buoni, non era così per quelli con la pieve di Villa.

Analizzando i fatti e le controversie, emerge un quadro davvero particolare e meritevole di attenzione: si erano andate generando in più riprese delle dispute giuridiche inerenti i diritti e le pretese messe in campo dal titolare della pieve e pure contestazioni di natura economica sul versamento delle decime.

Era quest'ultimo un versamento reclamato più volte dal pievano di San Lorenzo ma però rifiutato dai monaci.

Si era arrivati a atti di prepotenze e a estreme tensioni, il tutto aveva richiesto l'autorevolezza dell'intervento vescovile al fine cercare di far chiarezza tra i contendenti.

A testimoniare il fatto ci sono tre distinti atti notarili, i primi risalgono al luglio del 1238 ed il terzo al giugno dell'anno successivo.

Due chierici della pieve, Tirano e Alberto, erano stati sorpresi da due conversi nell'atto di cogliere il grano in un campo della chiesa di Santa Perpetua.

Fatta la raccolta avevano caricato il tutto su un carro trainato da due buoi, conducendolo alla canonica di Villa, oltre a questo avevano rivolto minacce al rettore del monastero che ovviamente protestava per l'atto definito di violenza.

Tra l'altro, uno dei due conversi testimoni, Giovanni della Vigna, intimava ai due chierici e alla presenza di testimoni, di presentarsi il venerdì successivo davanti al vescovo Uberto, che aveva facoltà di decidere in merito all'accaduto.

Il verdetto vescovile giunto a distanza di pochi giorni, ordinava la restituzione del grano, pena la scomunica, inoltre il prelato intimava ai due chierici di comparire davanti al vescovo stesso alle calende di agosto.

Pare che la questione si fosse trascinata nel tempo, quasi un anno, sino la momento in cui un converso di Santa Perpetua deponeva sull'altare della chiesa di San Lorenzo una lettera del vescovo Uberto che ordinava al capitolo della pieve di presentarsi all'ordinario diocesano il terzo giorno dopo la festa di San Pietro per dirimere, possiamo aggiungere definitivamente la diatriba del furto di grano.

Si evince che la tensione perennemente latente tra pieve e monastero, trova altri indizi in diversi documenti.

Uno di questi risale all'ottobre del 1243; il vicario del vescovo Uberto dalla sede del castello espiscopale di Tresivio, si trovava a dover prendere la decisione in merito alle richieste di versamento delle decime.

Queste, avanzate dalla pieve di Villa ai confratelli di San Remigio e Santa Perpetua, erano inerenti a vigne e “ronchi” tenuti dai monaci, comprese diverse terre “novali”.

Con imparzialità giudicante, ascoltate le ragioni di tutte e due le parti, il vicario del vescovo, dopo diligente valutazione, assolveva Giovanni da Ponte, sindacus delle due chiese, dall'obbligo di pagamento delle decime sulla “novalia” e riconosceva il diritto di riscossione delle citate decime da parte della pieve su altre terre.

 

FONTE: SANTA PERPETUA E SAN REMIGIO antiche chiese gemelle alle porte della Rezia. Autore: Gianluigi Garbellini. Stampa: finito di stampare nel mese di dicembre 2005 dalla Tipografia Polaris Sondrio. Dalle pagine: 110 e 111 “L'ammissione dei novizi” e 122 “I tesi rapporti con la pieve di Villa”.  

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