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La Lombardia grigiona: Valtellina, Bormio, Chiavenna - 3^ parte

CULTURA E SPETTACOLO - 21 02 2019 - Mauro Cusini

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/Sondrio

"L’articolo che ho il piacere di proporvi è tratto dal portale www.lombardiabeniculturali.it, il portale del patrimonio culturale di Regione Lombardia.

Con questo elaborato mi piacerebbe guidare il lettore a comprendere meglio le fasi storiche che hanno caratterizzato l’età moderna del Nostro territorio.

Riporto e condivido il testo integralmente: lo scritto è notevole e dunque verrà suddiviso in 3 parti, per agevolare la lettura"

Mauro Cusini

 

La Lombardia grigiona: Valtellina, Bormio, Chiavenna (1512 - 1620; 1639 -1797) - (3/3)

I feudi in Valtellina all'avvento del dominio retico

All’avvento del dominio retico sulla Valtellina, nel 1512, decime e beni feudali erano considerati dai rispettivi beneficiari come vere e autentiche proprietà, che potevano essere alienate parzialmente attraverso vendite, subinvestite a singoli o addirittura a comunità, che a loro volta frazionavano i diritti acquisiti attraverso ulteriori concessioni.

 

Una tale situazione era il frutto di un processo secolare, che si era originato all’inizio dell’XI secolo, quando numerosi beni feudali erano venuti in possesso della chiesa comense. Con i secoli si era quindi venuto a creare un sistema economico e giurisdizionale assai intricato espressione emblematica della società feudale, che, conservato in Valtellina ben oltre l’inizio del governo grigione, portò ad aperta ostilità tra autorità delle tre leghe e gerarchia e nobiltà cattolica locale.

 

All’inizio della dominazione grigione, infatti, la giurisdizione temporale che, più o meno fondatamente, il vescovo di Como rivendicava su terre e beni facenti ormai parte del territorio delle tre leghe si era fatta più incerta. La situazione era diventata critica dopo che la maggior parte della Rezia e parte della classe dominante valtellinese aveva aderito alla riforma protestante. Tra le varie disposizioni legislative restrittive della giurisdizione ecclesiastica, il capitolo 210 degli statuti civili della Valtellina, riformati nel 1548, stabiliva che le locazioni semplici di beni ecclesiastici divenissero automaticamente, nel giro di venticinque anni, enfiteusi perpetue.

 

Tale provvedimento poteva essere collegato con l’articolo 11 del capitolo di Ilanz del 1526, con il quale era stata abolita in tutto il dominio delle tre leghe la locazione feudale ad tempus. Nel 1527 un altro decreto, seguito a quello di Ilanz del 1526, obbligava i comuni e i privati a consegnare alla camera dominicale di Coira i fitti, le decime, i proventi e i redditi dovuti a persone, sia ecclesiastiche sia laiche, residenti fuori dal dominio delle tre leghe. Nel 1561 furono aboliti i feudi condizionali dovuti al vescovo di Como da valtellinesi, chiavennaschi e bormini.

 

Origine dei diritti feudali in Valtellina nel medioevo

Il vescovo di Como ottenne nel medioevo dagli imperatori germanici privilegi e concessioni. Con un discusso diploma di Enrico II nel 1006 venne donata al vescovo di Como metà del viscontado valtellinese. Si è voluto formulare l’ipotesi che la base territoriale del viscontado valtellinese comprendesse le pievi di Ardenno, Berbenno, Tresivio, Villa, Mazzo, dove più ampi furono i possessi del vescovo nei secoli successivi e più importanti i suoi diritti di natura feudale.

 

Ambigua risultava in ogni caso la posizione del vescovo di Como, costretto a conciliare i diritti del visconte con quelli spettanti a signori diversi e che si riconnettevano a funzioni diverse: quelle degli avvocati, dei vicedomini, dei capitanei di pieve, coesistenti, nei secoli del medioevo, nel medesimo territorio delle valli dell’Adda e della Mera, in un pluralismo di ordinamenti. Ai capitanei di pieve spettavano probabilmente la giurisdizione e le funzioni militari, ai vescovi i diritti connessi con prestazioni di natura economica, con il relativo potere di esigerle mediante coercizione (“districtio”).

 

L’affermazione dei poteri e dei diritti del vescovo di Como in Valtellina passò attraverso la subinfeudazione di terre a cittadini comaschi, e questo fatto portò a una sorta di colonizzazione di terre da parte di Como, il cui comune, nell’epoca della sua espansione, si appoggiò al vescovo, per estendere la propria giurisdizione.

 

Anche in Valtellina la crescita della nobilità locale fu favorita dalla decisione dell’imperatore Corrado II, che accettò le rivendicazioni dei feudatari minori contro i grandi feudatari, soprattutto ecclesiastici, e concesse l’ereditarietà dei feudi. I capitanei delle pievi, i domini plebis, rivendicarono per sè a titolo ereditario i benefici che in precedenza tenevano per conto del vescovo; parallelamente, e non prima del XIII-XV secolo, avvenne uno smembramento dei diritti e delle funzioni che costituivano il contenuto dei poteri del conte, dell’avvocato, del vicedomino o del capitaneo, per intervento del sovrano o per divisioni ereditarie.

 

Nel 1276, ad esempio, il feudo delle pievi di Sondrio e Berbenno, ereditario della famiglia dei Capitanei, risultava diviso in ventiquattro parti e mezza, comprendenti tre quarti della decima delle due pievi, diritti di pesca, di caccia gli sparvieri, ai falchi, ai galli cedroni e ad altri volatili, diritti sulle miniere di ferro, sulla maggior parte dei castelli, decime sulle alpi, il districtus su tutto il plebato, e parecchi fondi della mensa vescovile di Como.

Non legate a Como furono invece le vicende della castellanza di Teglio, di cui furono signori fino agli inizi del XVI secolo gli arcivescovi di Milano, che investirono dei loro diritti dapprima i Lazzaroni e nel XV secolo i Besta.

 

Le rivolte contadine del XVI secolo

Tra gli antichi privilegi feudali del casato dei Beccaria, che aveva ereditato beni e diritti feudali nelle pievi di Sondrio e Berbenno dalla famiglia dei Capitanei, c’erano il dazio in Val Malenco, il pedaggio al traghetto di Albosaggia, la conferma dei decani di Sondrio, Montagna e Castione e quella dell’anziano della Val Malenco. Le proprietà infeudate ai Beccaria comprendevano nel XVI secolo le terre a coltura e boschive del territorio di Sondrio, Castione e della Val Malenco. I gravami colpivano i frutti di colture a cereali e legumi, canapa e lino, oltre al pascolo, legnatico, caccia, pesca, estrazione di minerali.

 

Fremiti di ribellione contro i laici investiti dei beni feudali e dei diritti vescovili finirono per percorrere le comunità rurali, sfociando in modo lampante nella rivolta contadina contro i Beccaria a Sondrio, Castione e Malenco nel 1572; o altrove, a esempio nella pieve di Tresivio, spinsero la comunità, come Acqua nel 1573, ad acquistare direttamente i diritti feudali, o quella di Montagna a usurparli, incorrendo nella scomunica. Argomenti di natura religiosa e il richiamo ai poteri giurisdizionali dello stato giustificavano le rivendicazioni delle comunità contadine. Ma mentre nelle comunità retiche la disgregazione della proprietà ecclesiastica era stata provocata e voluta da una legislazione che ne vietava l’infeudazione ai laici, la consistenza del patrimonio che la curia vescovile comense riuscì a conservare, nonostante tutto, divenne una prova della mancata integrazione della Valtellina nella struttura economica e sociale dello stato grigione. Alla fragilità del dominio grigione sulla Valtellina contribuì la poco decisa volontà di demolirvi il vecchio ordinamento feudale, il comportamento incline all’ambiguità e al compromesso delle famiglie grigioni più potenti, che influenzava le decisioni delle diete retiche, e della nobilità cattolica valtellinese. La decima feudale cessò in effetti in Valtellina solamente con l’avvento della repubblica cisalpina.

 

Da un altro punto di vista, non va dimenticato che le comunità valtellinesi si opposero al decreto di Coira del 1542 con il quale le tre leghe avevano avocato a sé la provvista dei benefici ecclesiastici vacanti, sottraendola al vescovo di Como e alla Santa Sede, in nome dell’antica consuetudine all’autonomia religiosa, per cui avevano assai spesso il diritto di patronato sulle parrocchie avendone fondato il beneficio: non lasciare cadere nelle mani dei Grigioni i diritti di disporre di benefici vacanti diventava per le comunità proprio un modo per rivendicare la propria autonomia.

 

Rottura dell'equilibrio istituzionale

Un punto cruciale in cui si evidenziava la natura del rapporto istituzionale tra i valtellinesi e le leghe erano le liti: le opposizioni avanzate dal consiglio di valle erano soprattutto di natura economica, puntavano per lo più su questioni di contributi straordinari e di licenze commerciali, anche se poteva accadere che la questione economica investisse poi relazioni di fondo, necessariamente politiche: ma si trattava, in definitiva, delle stesse opposizioni che i valligiani avevano avuto da secoli con le autorità feudali prima e con il ducato di Milano poi. Quasi tutti gli alti funzionari rappresentanti delle leghe in Valtellina furono fin dai primi anni grigioni.

 

Questa netta dicotomia non fu solo passivamente accettata dai valtellinesi, ma concordata: da una parte i funzionari grigioni, dall’altra il consiglio di valle; da una parte l’autorità delle tre leghe, dall’altra la libera organizzazione amministrativa ed economica delle comunità: è probabile che le tre leghe intendessero garantirsi, con i propri magistrati, la lealtà valligiana, potendo sottoporli a controlli diretti; dall’altra parte nei terzieri i valtellinesi accentuarono la netta distinzione tra le facoltà dei funzionari grigioni e quelle dei consigli di comunità. Questo principio della divisione delle competenze garantiva in primo luogo la chiarezza e la liceità giuridica dei ricorsi, garantiva in secondo luogo l’autonomia ma non l’indipendenza politica dei sudditi.

 

Quando, circa un secolo dopo l’inizio del dominio grigione, l’equilibrio si ruppe e ne seguì un periodo di crisi, che si può collocare tra i processi di Thusis del 1618 e il capitolato di Milano del 1639, la rottura fu da attribuirsi fondamentalmente al venir meno dell’instabile equilibrio politico internazionale: non soltanto la Valtellina, ma le stesse tre leghe furono vittime dello scontro interreligioso e politico tra le grandi potenze nella guerra dei trent’anni.

 

Il governo durante le guerre per la Valtellina

In seguito all’insurrezione antiprotestante del 1620, il consiglio di valle venne sostituito dal consiglio reggente o consiglio governante, composto da diciotto persone tra le più in vista della Valtellina elette in numero di sei per terziere. Il consiglio governante in data 29 marzo 1621 creò podestà nativi di Valtellina in Tirano, Teglio, Sondrio, Morbegno, Traona; al posto del vicario di valle elesse un collegio di cinque dottori in legge, i quali avevano l’autorità di terminare le cause d’appello.

 

Al cavaliere Giacomo Robustelli di Grosotto fu dato il titolo di governatore generale di Valtellina, con l’autorità di comandare alla soldatesca sottoposta ai capitani della Valtellina. Il consiglio reggente, supremo organo legislativo di valle, ebbe un cancelliere e cinque fiscali presso ciascun podestà. Tutte le cariche avevano una durata biennale, variando i consiglieri inizialmente per metà, poi per due terzi ogni anno. Alla carica di cancelliere fu eletto Nicolò Paravicini, che mantenne l’incarico durante tutto il periodo delle guerre per la Valtellina.

 

Il consiglio nel mese di giugno del 1623 elesse tre sindacatori forestieri che avevano autorità di controllare i dottori di collegio, podestà, fiscali, cancellieri e fanti di Valtellina, di dare udienza e terminare le cause civili e criminali tanto ordinarie che straordinarie. Nel giugno del 1627, quando le truppe della lega di Avignone lasciarono la Valtellina, il consiglio reggente venne sostituito da un magistrato con dodici componenti.

 

Chiusura dell'economia valtellinese

Durante tutta l’età moderna, nelle comunità valtellinesi la grande maggioranza della popolazione fu sempre dedita all’agricoltura, radicata nelle valli e sui versanti, e all’allevamento, in simbiosi con l’ambiente naturale. Non sempre le comunità contadine riuscirono, nel corso dei secoli, a mantenere un adeguato livello di autosufficienza alimentare, ma bisogna ricordare che esse diedero vita a un’economia prevalentemente autarchica con limitate ed essenziali forme di scambio e un solo prodotto (il vino) destinato all’esportazione.

 

L’attaccamento alle proprietà dei campi, boschi, pascoli, vitali risorse primarie di sussistenza, non era d’altra parte che un riflesso dell’antico inscindibile legame tra quelle stesse risorse e le condizioni di relativa libertà personale e comunitaria di cui potevano godere gli abitanti. L’organizzazione dell’economia e della società valtellinese, prolungatasi senza fratture dal medioevo alla fine dell’età moderna, risentì ovviamente delle trasformazioni climatiche, delle pestilenze, delle vicende militari, delle lotte politiche e religiose, che lasciarono tracce durature e indebolirono con l’andare del tempo le capacità economiche delle comunità, sempre alla ricerca, tra l’altro, di un equilibrio tra le risorse e l’elemento demografico.

 

Se è pur vero che la Valtellina, dall’epoca del capitolato di Milano (1639) alla fine del dominio grigione (1797) potè godere di un lungo periodo di pace, molto spesso i comuni si trovarono esposti a gravi situazioni debitorie. In questo contesto, nella seconda metà del XVIII secolo, i valtellinesi tollerarono con crescente difficoltà che il legame politico con le tre leghe (che si sostanziava nell’amministrazione della giustizia, la più delicata e vitale funzione sovrana) costituisse per i comuni un aggravio alla già difficile situazione, per via della malversazione e corruzione degli ufficiali grigioni. Ma fu ancora una volta il rapido mutare della situazione internazionale, tra il 1796 e il 1797, più che il dibattito interno tra Grigioni e valtellinesi, a determinare le scelte decisive per il destino della valle.

 

Declino dello stato retico

Il 5 marzo 1798 le truppe francesi entrarono in Berna, e un mese dopo la vecchia confederazione svizzera divenne la repubblica elvetica: uno dei capitoli della costituzione della repubblica invitava lo stato delle tre leghe a entrare a far parte del nuovo stato. L’antica Rezia era nel contempo entrata nel gioco politico e militare delle grandi potenze: il 10 ottobre 1798 le tre leghe firmarono un trattato con cui autorizzavano l’Austria a occupare i confini e i paesi retici. Ma già nel 1799 le truppe francesi occuparono la Rezia, e si insediò a Coira un governo filofrancese. Furono i comuni a determinare il nuovo assetto dello stato, chiedendo al governo di Coira l’annessione alla repubblica elvetica, come canton Rezia. Tuttavia, tra la firma del trattato e l’annessione dei Grigioni nello stato elvetico ci fu un percorso lungo e difficile.

 

La vittoria austriaca nel 1799 comportò infatti il ritorno all’antico ordinamento statale. La definitiva conferma dell’annessione della Rezia alla repubblica elvetica venne con l’atto di mediazione del 1803, a seguito del quale il cantone Grigioni non si diede però una nuova costituzione, bensì ristabilì l’antico ordinamento giudiziario e amministrativo dei comun grandi. La facoltà di dare le leggi, comunque, fu tolta ai comuni e alle singole leghe e fu conferita a un gran consiglio. Il referendum dei comuni fu conservato, ma a essi venivano sottoposti solo gli atti legislativi, e non come in precedenza anche le disposizioni amministrative.

 

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