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La peste del 1630 a Tirano

CULTURA E SPETTACOLO - 12 03 2020 - Ivan Bormolini

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/Melchiorre Gherardini, Piazza San Babila a Milano durante la peste del 1630
Melchiorre Gherardini, Piazza San Babila a Milano durante la peste del 1630

(Di I. Bormolini) La storia tiranese, in tema di malattie contagiose, ha alcuni riferimenti, in particolare sulla peste diffusasi tra il 1629/31. Quel grande flagello aveva avuto origine in Valtellina dalla guerra. La nostra valle era divenuta un grande campo di manovra per gli eserciti europei.

 

Gli interessi delle grandi potenze, Austria, Spagna e Francia si incrociavano e si scontravano nella nostra sfortunata Valtellina.

Soldatesche di ogni risma, scorrazzavano tra i nostri paesi, rubavano viveri, distruggevano le colture fra la costernazione della nostra popolazione.

E dalla guerra arrivava la carestia e in una popolo denutrito proprio la peste aveva trovato terreno fertile per dare inizio alla sua devastazione.

 

Francesco Saverio Quadrio asseriva che la prima persona colpita era proprio di Tirano e si trattava di “una rustica giovincella”.

Il parroco di San Martino in Tirano, Andrea Lanfranchi, aveva retto la parrocchiale dal 1621 al 1630, anno in cui era morto proprio di peste, il 22 aprile 1630. Aveva solo 35 anni ed era nato Poschiavo nel 1595.

Questo sacerdote aveva tenuto perfettamente aggiornato il libro dei morti, terminando l'aggiornamento il 4 aprile, evidentemente quando le sue condizioni di salute non gli avevano più consentito di guidare San Martino ed assistere gli appestati.

Il primo nome dei deceduti per peste era un certo Tommaso Malenco in data 18 ottobre 1629.

Proprio in quei giorni la peste aveva investito tutta la nostra zona ed era presente quasi in tutte le famiglie, indistintamente dalla classe sociale.

 

A proposito di Tommaso Malenco, il Lanfranchi annotava:

"E' morto di peste all'età di circa trent'anni, il 17 ottobre s'è confessato da me Andrea Lanfranchi e si è si ristorato con la santa Comunione, per ora è stato sepolto in Campone.

La moglie dello sfortunato Tommaso, moriva il 9 novembre si dice “in suspectu pestis”.

In riferimento proprio a quel 18 ottobre ed ai successivi periodi il Varischetti riportava:

“Un triste velo di morte calò sulla nostra cittadina in qual tragico autunno. E ovunque desolazione e pianto e morte”!

Già a novembre nel nostro borgo i decessi erano stati 30, ben 98 a dicembre; il nuovo anno si apriva nel peggiore dei modi, basti pensare che gennaio i morti erano stati 145, a febbraio 183, a marzo 219. Solamente nei primi tre giorni di aprile erano già 25.

Per fare una valutazione, va tenuto presente che le morti per peste a Tirano erano registrate dai sacerdoti solo per i casi che gli stessi avevano assistito.

 

Altri invece potevano essere sfuggiti di questi servi del Signore. La situazione a Tirano era infatti molto confusa, addirittura comprensibilmente caotica, si annotava che la media delle morti giornaliere durante la peste era di dieci, quindici persone.

Si ricorda, per fare un paragone, che nel 1623 i decessi erano stati 84, nel 1624 60, e nel 1625 69.

Per il ricovero degli appestati si erano costruiti attorno al santuario delle baracche e lo stesso luogo di culto veniva trasformato in un grande lazzaretto, gli ammalati languivano sul pavimento su cui era stata messa un po' di paglia.

Risulta dalle registrazioni parrocchiali che la maggior parte dei decessi erano segnalati “in aedibus B. Mariae V.” cioè negli edifici del santuario.

Si rivelava in quei drammatici momenti l'eroismo dei sacerdoti tiranesi nell'assistere gli appestati; da qualche anno era sorto il convento dei Cappuccni nella zona dell'ospedale e ben diciassette padri di quest'ordine erano morti durante il periodo pestilenziale.

I sacerdoti della parrocchia allora molto numerosi, erano otto addetti alla chiesa di San Martino e quattro di servizio in santuario, erano stati tutti vittime della peste mentre si prodigavano nell'assistenza ai moribondi. L'unico superstite era stato un sacerdote della famiglia dei Merizzi.

 

Alla fine del mese di aprile 1630, in soli quattro giorni, era segnata la morte di tre religiosi: frate Carlo, padre Pietro priore degli Agostiniani e frate Bartolomeo, seguono poi altri quattro nomi di sacerdoti, don Antonio Crotti, don G. Battista Canobbio e don Nicolao Venosta. Non va scordato il già citato prevosto Lanfranchi deceduto all'inizio di quel mese.

E' evidente che davanti ad un simile numero di morti anche le sepolture divenivano un problema serio da affrontare.

I morti erano sepolti nelle stesse chiese e nei vicini sagrati, in questa occasione, ben presto le sepolture nella chiesa parrocchiale avevano raggiunto il limite. Si seppelliva poi nell'antica chiesetta di San Giacomo, e “in Eccelsia S.Mariae ad Castellum”. Quest'ultima notissima chiesa nei pressi del castello di Santa Maria e da secoli non più esistente, era stata utilizzata per il culto protestante ed inoltre stata al centro di un feroce episodio allo scoppiare del Sacro Macello del 1620.

Ben presto però si era dovuto iniziare a seppellire in aperta campagna e frequentissima risultava l'annotazione “Sepultus est in prato”, oppure “ad ripam Abduae”, cioè sulle rive dell'Adda.

In altre note si trovava scritto “sepultus est in insula”, con ogni probabilità si trattava di un isolotto deserto in mezzo al fiume il quale serpeggiava senza argini per tutta la piana della valle di Tirano.

Di qualcuno si annota che aveva voluto essere sepolto nel proprio orto. Nel maggio del 1630 si legge questo atto di morte “ Dominus Horatius Venosta confessus et sacra communione refectus obiit et sepultus est in ortulo suo in via nomine Campone”.

 

Per ciò che concerne i responsabili della sanità, com'era la situazione?

Il bacillo della peste, va ricordato che veniva scoperto alla fine del 1800; solo da allora si sa che esso trova particolare ricettività nei rosicanti in genere e nei ratti in particolare. Questi per le loro abitudini sono grandi propagatori dell'infezione per via delle loro pulci. E' dunque chiaro che nessuno dei deputati alla sanità durante la citata ondata di peste nulla poteva sapere.

Questi sanitari, qualcosa però avevano intuito, forse notizie ed indicazioni erano giunte dalla Repubblica di San Marco, il cui dominio iniziava appena al di là delle Orobie.

Pare infatti che Venezia sia stata la prima ad istituire i lazzaretti ed a praticare disinfestazioni, stabilendo anche periodi di quarantena.

Così, dopo un'assemblea di Terziere in data 20 febbraio 1630, si era emanato un “Editto e procalama”. In questo erano contenuti divieti, prescrizioni e ordini “acciò le terre infette si curino et le altre si preservino dal mal contagioso della peste”.

In tutto si trattava di 27 punti da osservare rigidamente e che riguardavano la vita in quel periodo particolare. Addirittura l'inosservanza delle prescrizioni era punita con la pena di morte. I decani dovevano fare osservare tutte queste norme contenute nel decreto, potevano trarre in arresto i trasgressori e per agire contro di loro bastava un solo testimone.

 

FONTI: TIRANO. Autore don Lino Varischetti. Stampa: finito di stampare il 29 settembre 1961 presso la Tipografia Bettini in Sondrio.

ASPETTI DI VITA QUOTIDIANA A TIRANO AL TEMPO DEI GRIGIONI ( 1512-1797 ). Autore William Marconi. Stampa: Bonazzi Grafica Sondrio 1990.

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1 COMMENTI

12 03 2020 16:03

Méngu

«Per la peste vigeva la legge del "tutto o nulla": se non la si evitava, si moriva. Ma si poteva morire anche di angoscia o di paura, come certificava nel 1348 un anonimo cronista spettatore della "peste nera", annoverando tra le cause di morte lo «sbigottimento delle genti.» ( Giorgio Cosmacini). Così potrebbe essere anche oggi per il Coronavirus. Occorre confidare nelle diposizione dei medici, attenersi alle normative emanate dal Governo nel pieno rispetto di se stessi e degli altri. Poi il tutto passerà e valuteremo con maggior misura il dono prezioso della Vita, il rispetto della Natura e, sopra tutto una sana condivisione dei beni a nostra disposizione. Non facciamo illusioni: la Natura stessa “corregge e sistema “ senza favoritismi i nostri eccessi. L’uomo è piccola cosa, anche se in questi tempi postmoderni la scienza pensa di potere controllare, modificare e correggere ciò che in tredici e passa miliardi di anni il Creato ha “partorito” . Auguro calma e serenità.