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Ci sunnu omini, ominicchi e quaquaraquà

CULTURA E SPETTACOLO - 04 12 2018 - Méngu

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E’ meglio essere uomini o quaquaraquà? Era l’interrogativo che noi ragazzi della contrada di S. Maria ci ponevamo. Era uno degli interrogativi che nascevano magari dal caso d’una partita a biglie giocata slealmente presso l’allora “ büi vècc “ accanto alla Torre Torelli in Tirano o a pallone sullo stradone del Campone.

 

L’azzuffarci per cose anche banali era quasi la norma e non raramente seguiva una scazzottata con un ruotare di scarponi tra gli stinchi. Non eravamo dei ragazzi violenti . Il nostro fare era una sorta di balletto virile che ci rinvigoriva il corpo e lo spirito poiché tra noi vigeva un regolamento non scritto nero su bianco ma ben stampato nelle nostre menti e nel nostro animo. Ed era questo: “ meglio una scazzottata subito per far chiarezza dei torti subiti che il trascinarsi di dissapori “ . Non era violenza la nostra ma era la dimostrazione d’essere uomini e non quaquaraquà.

 

Le nostre sberle non erano pregne di rancore , erano segnali per una prova di forza del nostro carattere e anche di desiderio di far chiarezza e pacificazione. Era il bene che lottava contro il male e l’ingiustizia. Anche allora si insegnava all’oratorio che le mani occorreva tenersele in tasca e che le idee giuste o sbagliate andavano poste nei cassetti del rispettivi cervelli senza rancore per poi riprenderle al momento opportuno per la chiarificazione. Ci insegnavano a non essere dei galletti da combattimento al primo torto e che le ragazze non andavano difese da pretendenti fuori contrada a tiri di pietra. Il rispetto reciproco era sacrosanto e andava difeso con dignità. I preti dell’oratorio ci raccontavano che i dissapori, le arrabbiature, i torti subiti potevano essere considerati una “ prova “ per porgere al proprio “ aguzzino “ anche l’altra guancia. Ci consigliavano di perdonare coloro che ci avevano fatto del male e di essere buoni . Insomma ci inculcavano l’idea d’avere pazienza , le nostre mamme erano d’accordo, solo qualche papà scuoteva la testa e avrebbe poi purtroppo avuto ragione.

 

Siamo diventati grandi e ci siamo accorti che questo ammaestramento al giorno d’oggi funziona come cavoli a merenda e ha dato forza a un detto che recita “ a ès bùn, s’è cuiùn “ ( ad essere buoni si è coglioni ) . Il nostro spirito, per così dire cristiano, che spirava in noi non ha avuto il sopravvento sulla bufera illuminista, relativista e post moderna dei nostri tempi . Avranno un bel da fare il nostro Vescovo e i nostri Sacerdoti nel ricercare nei nostri tempi e nelle nostre persone lo spirito cristiano che esisteva un tempo nelle nostre parrocchie e dove le parole avevano un peso. Questa realtà la troveranno forse ancora oggi nella fanciullezza per poi vederla dileguare nella maturità, e vederla poi timidamente apparire in alcuni casi nella vecchiaia quando si tirano le somme della vita vissuta.

 

Ora, purtroppo, anche molti anziani sono stati contagiati dal virus dell’egoismo e dalla indifferenza religiosa, insomma siamo diventati più “ problematici “. I galletti da combattimenti sono scomparsi e al loro posto ci sono i maestri sofisti estremi della politica e dell’economia e i comici del chiacchiericcio frenato . Siamo diventati tutti difensori dei nostri diritti con parole e immagini da manuale e straccioni dei nostri doveri. Gli sgarbi d’oggi si ricevano con il sorriso felino sulle labbra, ci si difende con il sibilo delle parole taglienti dei quaquaraquà e ogni parola può essere usata per vendetta personale e non perdonata. Si scruta nel prossimo, nei meandri del passato magari fino alla terza generazione per trovare qualche bubbone da portare a vantaggio della propria difesa.

 

Sui mass media, nella televisione, in tante assemblee pubbliche, ci si stupisce delle parolacce e degli insulti che si lanciano tra loro i rivali politici. Sembrano gladiatori in una arena dove le lame taglienti delle ruote dei loro carri triturano i loro rivali senza pietà. Felice quel tempo in cui gli uomini, per le loro idee, si battevano con le armi guardandosi in faccia e non cadevano al suolo come birilli perché un quaquaraquà aveva fatto loro lo sgambetto traditore, per un nonnulla.

 

Méngu

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