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GIORNO 4 - "LA RESA DI DOBOJ"

CULTURA E SPETTACOLO - 11 09 2015 -

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VUKOVAR - SLAVONSKI BROD - DOBOJ - ZENICA - SARAJEVO
Se foste venuti a bussare alla porta della nostra camera in Vukovar, stamattina all'alba, non ci avreste trovato. Usciamo che i negozi sono ancora tutti chiusi, un ultimo giro per la città. Camminiamo fino alla cisterna bombardata simbolo di un passato che questa città non sembra ancora aver deciso se eleggere a fondamento turistico o cercare di dimenticare completamente e superarlo. Come la cisterna, molti palazzi bucherellati non sono ancora stati sistemati, molte case crollate restano in attesa di una ricostruzione che in vent'anni non le ha ancora toccate, al centro di Vukovar, un hotel completamente in rovina, ancora arredato.
Con questi interrogativi nel cuore, partiamo per la Bosnia. Riprendiamo il bus per Vinkovci, ma una volta arrivati ci dicono che non esistono treni che da quella stazione vanno in Bosnia. Forse, è la mentalità che deriva ancora dal sistema socialista in cui, comunque vada, avrai il tuo stipendio a fine mese e non è quindi necessario adoperarsi troppo. Un modo dev'esserci per forza, rompiamo nuovamente le scatole alla bellissima ragazza della biglietteria. Si ricorda di noi che le abbiamo interrotto il pranzo di ieri, sposa la nostra causa e fa alcune telefonate per cercare di capire come convenga muoverci, dice di avvicinarci al confine e da lì cercare un modo per entrare in Bosnia. Finiamo su un treno che da Vinkovci ci porterà a Slavonski Brod ultimo baluardo croato. Arriviamo a destinazione nel primo pomeriggio, ma per Sarajevo c'è soltanto un bus che partirà alle 19 e raggiungerà la capitale bosniaca soltanto alle 23:55. Troppo tardi. Considerando il costo dell'attrezzatura di Emanuele, non possiamo permetterci di rischiare anche perché, come sempre in questo viaggio, non abbiamo nulla di prenotato e rischieremmo troppo. All'avventura sì, pirla no.
Per caso, mi ricordo della città di Doboj, una delle tappe del treno che collegava Belgrado a Sarajevo, decidiamo di puntarla, rotta verso sud. In origine il nostro viaggio avrebbe dovuto essere proprio a bordo di quel treno che ormai non esiste più. Aperto nel 1983 in vista delle olimpiadi invernali che si sarebbero tenute a Sarajevo l'anno successivo, era il fiore all'occhiello delle ferrovie jugoslave. Con lo scoppiare della guerra la tratta fu interrotta, riaprì soltanto nel 2009 per essere definitivamente soppresso nel 2012 a causa della scarsa affluenza.
Di fatto, a parte la deviazione per Vukovar, stiamo facendo proprio quella tratta rattoppando qua e là con un bus un treno, un bus. Siamo gli arlecchini dei trasporti balcanici.
Ci decidiamo per Doboj nella Bosnia centrale, senza sapere nulla di quella città. Tutta la stazione di Slavonski Brod si attiva per noi, chi ci fa i biglietti telefonando a destra e a manca per assicurarsi che il bus compia una fermata extra a Doboj, chi ci cambia i soldi, addirittura troviamo un autista che viene ad avvisarci di persona in sala d'attesa quando arriva il pullman. Si ringrazia, si stringono mani e, soprattutto, si sorride. Se c'è una cosa che ho imparato da mostri sacri del viaggio quali Terzani o Antoine de Maximy è che il sorriso è la prima fondamentale forma di comunicazione, ancora prima del linguaggio, in alcuni casi estremi come per Terzani può addirittura salvarti la vita, ma questa è un'altra storia, ciò che interessa qui è che abbiamo ottenuto ciò che cercavamo, un pullman per la Bosnia. Passiamo il confine intorno alle due di pomeriggio dopo un rapido controllo delle due polizie di frontiera, anche se in verità quello bosniaco non è molto approfondito, vengono controllati soltanto due passaporti su tutto il pullman.
In genere i tetti sono la prima cosa a bruciare, poi i serramenti, le porte, le finestre, i giardini, e gli alberi. Quando il fumo svanisce resta sui muri anneriti uno strato di caliggine che pare un vestito dietro al quale gli stessi muri nascondono la propria vergogna. La vergogna di essere sopravvissuti. Sono ancora tutte lì queste case, mai più toccate, mai più ricostruite, intorno pochissimi i campi coltivati, boschi, cespugli, pianure incolte, ogni tanto qualche casa nuova con l'intonaco fresco. Eccola, la Bosnia.
La prima volta che ho sentito questo nome "Bosnia", dev'essere stato alla televisione o forse al supermercato. Già, perché quando nel nostro paesino ha aperto il primo LIDL, le merci venivano lasciate sui bancali ancora impacchettate, ci si serviva un po' da soli, alla buona, tutto pareva un po' trascurato, le marche sconosciute, per lo più d'importazione tedesca, ed in paese, quel supermercato aveva preso il nome di Bosnia. Andiamo al Bosnia a fare la spesa! Mentre entro nella vera Bosnia un po' me ne vergogno.
Subito oltre confine le case distrutte ci accompagnano da entrambi i lati, ad interromperle, i cimiteri, le chiese ortodosse e tante bandiere con i colori della Jugoslavia o della Serbia forse, bianco rosso e blu. Perchè non hanno appeso le bandiere della Bosnia? Per intenderci, quella con le stelle bianche che separano la metà gialla da quella blu? Perché siamo nella Repubblica Sprska, quella dei serbi di Bosnia, una delle due entità federate che danno vita alla Bosnia Erzegovina. Questi serbi hanno combattuto per staccare dalla Bosnia tutte quelle porzioni di territorio che da secoli erano abitate dalla loro etnia ed annetterle alla stessa Serbia che stava uscendo dalla dissoluzione della Jugoslavia come nuovo stato egemone. Per riuscire in questo intento, avrebbero dovuto prima rendere omogenee entcnicamente quelle regioni che vedevano presenti in larga parte i cosiddetti Bosgnacchi (cioè i bosniaci mussulmani), i croati di Bosnia ed altre etnie minori.
Per queste strade, tra queste case, in questi campi è passata la guerra peggiore, quella che in spregio delle convenzioni internazionale, fu "spesso condotta da truppe drogate o ubriache, che usavano il terrore come strumento per costringere la gente dell'etnia nemica ad abbandonare le proprie case. Massacri, stupri sistematici, saccheggi, incendi dolosi, rapine, blocchi stradali, estorsioni, rapimenti, ricatti, pose di mine, interruzioni ferroviarie erano all'ordine del giorno". ( Il virgolettato è di Joze Pirjevec, dal libro "Le guerre Jugoslave" l'unica vera Bibbia di questo viaggio).
La strada corre in questo paesaggio macabro, la pianura inizia a rompersi con qualche collinetta che si affaccia timida. Passiamo la città di Brod con la sua imponente raffineria, ma solo quando arriviamo a Rudanka vediamo la prima moschea, segno che gradualmente ci stiamo spostando a sud dove la presenza mussulmana, dovuta al dominio turco, è rimasta ancora viva.
Infine, giungiamo a Doboj. Scendiamo nel nulla sotto un sole che spacca le pietre, dalla periferia ci spostiamo in centro e cominciamo la ricerca di un posto per la notte. Scopriamo che ci sono soltanto tre hotel a Doboj. Scartato a priori il quattro stelle, perché troppo lontano dallo spirito di questo viaggio. decidiamo di provare nel primo, una sorta di motel sopra una stazione di servizio.
"FULL! FULL! We are full, sorry!", ma un poliziotto con l'uniforme nera della Repubblica Sprska ci si avvicina gentile consigliandoci di provare in un posto lì vicino, ma è 'full' anche quello. La ragazza alla reception cerca di aiutarci ma, ancora una volta lei non sa l'inglese e facciamo fatica a capirci. E' visibilmente preoccupata per noi anche perché sono già le sei di sera e all'orizzonte si palesano due temporali che paiono aver deciso di scontrarsi proprio sopra le nostre teste. Alla fine, sconsolata, ci chiede perché abbiamo deciso di andare proprio in Bosnia, dice che lei non vede l'ora di andarsene, noi siamo dei pazzi. Addirittura telefona alla stazione dei bus per sapere a che ora passa quello per la città vicina, consigliandoci di provare là. Alla fine, sempre col sorriso, le diciamo di non preoccuparsi che in qualche maniera faremo, al limite dormiremo in stazione. Ci saluta, sempre più preoccupata: "Just don't die outside!".
Incoraggiati dalle sue parole ci rimettiamo alla ricerca, ma proprio in quel momento ci coglie il diluvio. Ripariamo nell'ingresso di una casa e rimaniamo nell'androne delle scale per quasi un'ora, con noi due donne, sembrano madre e figlia, la più giovane parla inglese, dice di aver studiato lingue tra cui anche l'italiano, ma specifica che non capisce nulla né lo sa parlare perché la sua professoressa era bad. Restiamo lì a sorriderci e farci gesti o semplicemente a guardarci fino a quando spiove. Chiediamo se sanno dirci dove dormire e la ragazza riesce comunque a tirare fuori un nome, hotel Zungla.
L'hotel Zungla di Doboj è in realtà un motel per camionisti piuttosto degradato, sul limitar d'un piazzale d'asfalto, con i cani randagi che si aggirano nella sporcizia diffusa ed alcuni rom, i primi che incontriamo, con i loro borsoni. Ci avviciniamo e subito dopo aver tentato di parlarci nella loro lingua ci parlano in italiano, i rom qui parlano e capiscono l'italiano benissimo, questa sarà una costante. Non capiamo dove sia l'ingresso del motel e a furia di girare finiamo nella camera di due camionisti in canottiera che stanno guardando la televisione buttata per terra in un angolo della stanza. Uno resta sdraiato sulla branda, l'altro ci viene incontro in ciabatte, ma ancora una volta, non ci si riesce a capire un granché, giriamo ancora mezz'oretta e decidiamo di fare un tentativo alla stazione dei treni, dall'altra parte della città, oltre il fiume Bosna.Lì sembra di stare sulla Transiberiana, in una di quelle stazioni di mezzo dimenticate da dio. Negozi distrutti un po' ovunque, ruggine, cani randagi magrissimi in mezzo alla spazzatura e bigliettai introvabili. Non so come, capiamo che il primo treno per lasciare Doboj arriverà soltanto alle 3 del mattino, si materializza un impiegato delle ferrovie che senza scomporsi, ci consiglia di dormire in stazione, fa parte del gioco, ok, ma la teniamo come ultima spiaggia. Tentiamo il tutto per tutto alla stazione dei bus, troviamo un pullman alle 19:30 che ci porterà direttamente a Sarajevo. Purtroppo, sconfitti, dobbiamo sautare Doboj, è un gran peccato, ci è parsa una città molto interessante dai tratti complessi, con i soliti palazzoni grigi che ci guardano strano, ma piena di giovani, in lontananza, a colorar le colline, castelli diroccati, chiese bianchissime e, poco più in là, persino una moschea.
Si riparte dunque, prossima fermata Sarajevo, lasciamo Doboj in perfetto orario, la strada corre dritta per tutto il primo pezzo, c'è talmente poco traffico che l'autista del nostro bus si lancia in sorpassi alla cieca prima di curve più buie della notte in Antartide. Sfibrati dalla giornata, ci abbandoniamo alle calde e comode braccia di Morfeo.
La Valtellina per me è un bellissimo posto, sicuramente per quanto riguarda l'ambiente. Montagne, boschi, sentieri, strade, tornanti a picco sul fondovalle, fiumi e paesini a metà montagna, aria pulita e spazi per fuggire a pensare.
E' un po' come quando riavvii un computer. Anche il cervello ha bisogno del suo tempo per riaccendersi, come un hard disk, ma c'è un momento in cui mentre il sistema nervoso riparte, gli occhi lo inondano di mille stimoli che per qualche secondo non riesce ad elaborare. E' proprio quello il frangente in cui, riaprendo gli occhi al mondo, ho la netta sensazione di essere a casa, anzi, per un momento, ne sono proprio convinto. Più precisamente (per chi la conosce) in quel tratto di strada che dal Valchiosa porta verso Tovo, una sorta di gola con il fiume molto più in basso, una piccola diga e due guardrail.
E invece no, quelli che mi circondano oggi, sono loro, i Balcani. Balkan in turco significa appunto "montagna", certo non sono imponenti come le Alpi, ma nulla a che vedere con le colline di prima. Il sole è appena tramontato e la gente è tutta ancora nei piccoli campi tra le sparute case, chi gira il fieno, chi lo rastrella, chi ne fa dei particolari mucchi, molto alti, con un palo ben piantato in centro. A parte questo, monti, case, chiese, moschee, nessuna bandiera con i colori Jugoslavi, solo quelli bosniaci, siamo in quella che, secondo gli accordi di pace firmati a Dayton nel 1995, è la seconda delle due entità federate, la federazione di Bosnia Erzegovina.
Le case qui sono molto curate, intonaci nuovi, i muri non hanno i segni della guerra, probabilmente non si è combattuto molto da queste parti, siamo in una zona centrale, etnicamente omogenea.
Mentre ormai l'unica luce che filtra dai finestrini è quella dei lampioni al fianco dell'autostrada, entriamo a Zenica. E' molto più grande di Doboj, ci accoglie con l'imponenza delle sue fabbriche, probabilmente tutto è un gigantesco centro siderurgico perché fin dove gli occhi possono spingersi è tutto un unico susseguirsi di tubi, cavi, cisterne, e ciminiere che, come se nulla fosse, continuano a sbuffare senza curarsi di noi. Lì nel mezzo fiamme gigantesche rischiarano porzioni casuali di cielo. Mi perdo nella suggestione delle ciminiere che erano per me come sirene, finché non ho scoperto i minareti, ma anche questa è un'altra storia. Pensiamo che questa sia la cosa più sovietica vista fin qui, una gigantesca acciaieria dispersa tra i monti, divisione del lavoro in aree produttive cui è attribuito uno ed un solo scopo. Socialismo reale che resiste imponente. Tutt'intorno i soliti palazzoni dormitorio, che ora, con le luci accese, fanno ancora più paura, ma in questa notte particolarmente buia, là in fondo, ad una manciata di chilometri, l'abbraccio caldo che cerchiamo, la nostra salvatrice. Sappiamo che ci attende e non vediamo l'ora di abbracciarla.
Welcome to Sarajevo?

DIARIO BALCANICO di L. Cometti GIORNO 0 – “Piccola premessa doverosa” GIORNO 1 – “Cosa andate a fare a Belgrado?” GIORNO 2 – “Gli scarafaggi muoiono sulla schiena” GIORNO 3 – “Le anime di Vukovar” GIORNO 4 – “La resa di Doboj” GIORNO 5 – “Leila Thirtyfour” GIORNO 6 – “Darko” GIORNO 7 – “Dove la logica si arrende, la Bosnia comincia, Aisha” GIORNO 8 – “Le bandiere” GIORNO 9 – “Viaggio in Republica Srpska” GIORNO 10 – “Decompressione”

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