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Il flacone sepolcrale – CANTO PRIMO

CULTURA E SPETTACOLO - 13 12 2016 -

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«Il flacone sepolcrale» è il mio nuovo inventario magico. Il suo nome è tratto dal poema «Le flacon» di Charles Baudelaire, al quale pospongo l’aggettivo «sepolcrale».  Dentro la boccetta vitrea di Baudelaire risiedono migliaia di pensieri crisalidi, dimenticati dal tempo; sono fiori appassiti, maledetti: sono i Fiori del Male. Eppure, talvolta questi pensieri riemergono in superficie, uscendo dal mare scuro come il vino o ridiscendono dagli astri infuocati. Con il loro profumo inebriante spiccano il volo, muniti di ali «tinte d’azzurro, di rosa ghiacciato, laminate d’oro». Baudelaire ha osato aprire lo scrigno d’Oriente e similmente farò io; anzi, noi. Sonderemo gli abissi più profondi, forse non della conoscenza. Ed ecco che quando crederemo di aver colto l’essenza di quei pensieri cristallizzati nei secoli, come suole essere la salgemma preziosa nelle grotte di Salisburgo, la Vertigine ci spingerà verso «una voragine oscura di miasmi umani». Ho sempre provato immensa fascinazione per i simboli. Adoro osservare il mondo attraverso un velo. Il velo di Maya? Perché no. Do forma alle cose, ai pensieri, al cosmo… Ma così va a finire che divento Dio! Non preoccupatevi, non leggerete le parole di un megalomane (o forse sì?). La stesura di due canti, di cui il primo è pubblicato in questa sezione, costituisce un semplice esercizio stilistico, un gioco. Essi sono frutto di un’ispirazione religiosa particolarmente sentita ed assumono un registro lessicale specificamente arcaico ed arcaizzante, intriso di molteplici espedienti ed artifici retorici, quasi a riflettere la concezione oratoria dell’asianesimo. Eppure, la sintassi medesima, costruita secondo rigidi canoni, rispecchia la mia spiritualità. Lungo questi versi estremamente atipici corre un certo pathos per ciò che non ho veduto.  Così concepisco il mondo delle Idee, sebbene esso non assuma una valenza platonica, sic et simpliciter.  Secondo l’accezione del Filosofo le Idee corrisponderebbero, infatti, all’immagine speculare della realtà sensibile, ma sono di grado superiore, perfetto. Quello di cui argomento, di contro, è un cosmo permeato da alma felicità e beatitudine, in cui, sulla linea del pensiero borgesiano, il sogno, la visione, vengono trasmutati da immagini a pensiero, da pura Essenza a Materia.

Michelangelo, ADAMO ED EVA CANTO PRIMO

L’odor del cinnamòmo. L’Angelo del Paradiso. Latte sgorgante dalla roccia. La porta aurea. Canto angelico. Ingresso nel Regno dei Beati.

I’ non saprei dir quanti giri attorno alla sua ròta la sfera turchese avea compiuto quand’i’ fui in quello Regno che l’umana posse dice esser de’ Beati.

Un odor di cinnamòmo ne esalava e di tinte soavi era dipinto lo dolce colle ov’i’ giacea. I’ credo che l’umana lingua atta non sarìa a dicer ciò che m’apparve. Ma un lume intenso investì quello Reame ch’a guisa d’oro parea mutato sì che giammai diademi né lapislazzuli fuor somiglianti. Un angelo splendente afferròmmi la mano.

Oh Muse, che cullate da flutti divini cantate in Ellicona, accompagnate col suon della cetra il mio poema solenne ché le parole verrìeno meno a dipinger esto sogno. Morbidi panneggi di cobalto scendeano insino ai piedi e d’oro ricamati. I’ credo che maggiori fosser le tinte dell’ali sue di quante i’ ne vidi in sul pian de’ Romagna, intra città de’ Malatesta e la Venezia che surge sul Delta del Po e fiume Reno e che Odoacre magnifico e Teodorico puoser a capital de’ regno.

M’accompagnò dolcemente insino ad una rocca donde sgorgava latte purissimo. “Giammai sulla Terra intingesti le labbra tue in sì preziosa sostanza, che Callimaco gustò pria che il prodigioso Odisseo facesse ritorno alla terra de’ padri. Assapora adunque, ch’essa è all’ambrosia simile e da bei pomi della Santa Vergine, che generò il Figlio dell’Altissimo, discende”. Così disse la divina Creatura ed i’ sanza indugio seguii suo consiglio. Sete non sarìa mai placata da simil liquame; Onde, ei cominciò “Or vieni, ché esta porta convien che si varchi”.

D’ogne pietra preziosa era coronata Ch’i’ ne rimasi stupido, sì come il pastorel, quando il ciel su cui Notte stende il suo nero stuolo, di blu pavone, di verde muschio e di vermiglio si dipinge, ché l’aere par scosso.

Come lo quarzo, nel sembiante duro e di pietrame fatto e di purpuree gemme entro sparso, tal parea la vision donde fui scosso. Ch’io vidi una landa di cristallo e che di ghiaccio parea coperta. Lo cielo di stelle era cosparso Ch’i’ non potrei contarle. La via lattea, che lo carro d’Apollo Fetonte mal governando generò m’apparve quivi. Aurea polver discendeva.

Novella vision si rese manifesta, ché creatura alata comparve. Oh qual maraviglia mi colse quand’i’ vidi che di mirabil fattura eran l’ali sue. Vengan in aiuto l’antiche Muse perch’i’ credo che la mia penna più non si muoverebbe sì leggiadramente sanza loro afflato.

Qual lo pavone, quando da timor còlto mostra sua chioma, tai eran le sue penne disciolte. Fu allor che s’elevò un coro d’Angeli ed ei cantaron “Osanna” con voce lieve.

“Ad esto Eletto partir si convien, ché più alto officio gli spetta in su le sempiterne Sfere”. Sì disse ed intra lo Regno feci ingresso.


  Alessandro Cantoni

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1 COMMENTI

13 12 2016 15:12

Giorgio

Sei semplicemente il migliore!! continua sulla tua strada la passione per quello che fai la si respira grandeee!!