MENU

"Collusi" di Nino di Matteo e Salvo Palazzolo

CULTURA E SPETTACOLO - 31 03 2017 - Rossi Mauro '59

CONDIVIDI

/collusi, copertina

“La drammatica consapevolezza  che ho maturato, durante il mio impegno a Caltanissetta ed a Palermo, è che per sconfiggere Cosa Nostra una volta per tutte dobbiamo guardare anche dentro lo Stato”. Questa è, in sintesi, l'opinione di Nino di Matteo, da più di 20 anni magistrato antimafia in Sicilia, titolare dell'inchiesta “Stato-Mafia” ed attuale nemico pubblico numero 1 di Cosa Nostra.

 

Ex membro della DIA, ora associato alla procura di Palermo in seguito ad una legge tutta italiana secondo la quale un magistrato non può occuparsi esclusivamente di “mafia” per più di 10 anni, lui prosegue imperterrito nel suo lavoro. Ma, come rivela questo libro, e come in passato hanno rivelato anche le cronache, quest'uomo non solo è temuto dai clan, ma anche da importanti apparati dello Stato (vedi la questione delle intercettazioni telefoniche tra Mancino e Napolitano subito messa a tacere), e da parecchi  suoi stessi collaboratori.

 

Il capo dei capi Salvatore Riina, rinchiuso nel carcere di Opera al regime del 41bis lo vuole morto. Dalle registrazioni ambientali messe in atto dalla Direzione Investigativa Antimafia, di cui Di Matteo faceva parte fino a qualche tempo fa, nell'atrio del carcere, si possono ascoltare le sue conversazioni con il compagno dell'ora d'aria, un personaggio strano, un capo clan di cui nessuno in Procura sappia capacitarsi del perché sia stato “affiancato” in carcere al boss né di chi sia stata l'idea.

 

“Facciamola grossa e non parliamone più”, così parla Riina a proposito di Di Matteo, oltre che vantarsi delle stragi dei primi anni anni 90 e dell'attentato mortale al generale Dalla Chiesa nel 1982. Riina non ha mai parlato nel corso dei vari processi in cui è stato imputato ma parla molto in privato, e sembra tenga molto a far sapere (attraverso il suo compare dell'ora d'aria?) che lui non è mai stato un “pupo” al servizio di nessuno, lui prendeva le decisioni e lui trattava, con tutti; ma soprattutto lui è ancora il Capo. Non ha mai perso un udienza del processo Stato-Mafia ed ha dichiarato agli agenti della polizia penitenziaria che lo accompagnavano in tribunale”io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”.

 

Loro, personaggi che stavano e stanno  nelle alte sfere e che non trattano certo in prima persona, ma che agiscono attraverso una rete ben strutturata e ben addentrata di intermediari che hanno la possibilità di  avere contatti con entrambe le parti senza destare sospetti; imprenditori, commercianti, medici famosi, avvocati o anche membri delle forze dell'ordine, gente al di sopra di ogni sospetto, persone sicure di sé che si fanno irretire, rischiano sulla loro pelle a fronte di promesse fasulle, fino alla resa dei conti.

 

La resa dei conti è arrivata, ad esempio,  per l'ex governatore della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro, un amministratore che ha fatto il bello ed il cattivo tempo raccattando voti e consensi là dove era più facile, che ha portato la sua Regione allo sfascio totale là dove non era già sfasciata,  messo sotto processo proprio da Di Matteo assieme a tutti i suoi fedelissimi, ma si parla anche dell'ex Premier Silvio Berlusconi, ai tempi (anni '80) ricco imprenditore, preoccupato di proteggere i suoi interessi economici e le sue parabole televisive in Sicilia, di cui Riina parla chiaramente in riferimento a fatti relativi agli anni '70 e '80 e per i quali l'intermediario Marcello Dell'Utri è stato condannato in via definitiva a 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa .

 

“A noialtri ci dava 250 milioni ogni sei mesi (carcere di Opera22 agosto 2013), ma il boss è molto incazzato con Silvio, che aveva promesso di fermarli, i magistrati: ”Berlusconi non ha fatto niente, perché lui è là e noi siamo qua” (26 ottobre 2013); o come l'ex poliziotto ed in seguito alto funzionario del  SISDE Bruno Contrada, anch'esso condannato in cassazione e di cui le cronache parlano anche in questi giorni.

 

Ecco, è appunto dopo il periodo delle stragi, a partire dalla seconda metà degli anni 90 che Cosa Nostra decide di cambiare strategia, soprattutto per volere di Bernardo Provenzano, l'erede del capo di capi, un uomo altrettanto spietato ed analfabeta come il suo mentore, ma dotato di conoscenze ed attaccamenti ad alti livelli che gli consentono di portare l' organizzazione malavitosa all'interno dei gangli vitali delle istituzioni pubbliche soprattutto a livello economico attraverso accordi, mediazioni, intimidazioni ed offerte di “piaceri” a buon mercato a chiunque avesse bisogno di servizi ai quali lo Stato avrebbe impiegato troppo tempo ad adempiere.

 

Insomma, Cosa Nostra diventa una specie di agenzia cui imprese, multinazionali, imprenditori si rivolgono per superare (illegalmente) problemi burocratici sul nostro territorio, ottenere appalti ed avere sicurezze che lo Stato non riesce a garantire, ma nello stesso tempo si assicura anche una possibilità di riciclaggio di tutto il denaro proveniente da attività illecite come traffico di droga o ricatti o tangenti. Ma si sa, prima o poi i favori devono essere pagati, prima o poi qualcuno arriva a battere cassa.  

 

“Perchè politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, pur sapendo che le indagini presto o tardi arriveranno a smascherare tutto?” Questo si chiede oggi Di Matteo, questo si chiedevano ieri Falcone, Borsellino,Rocco Chinnici e tanti altri che purtroppo non hanno potuto avere risposta. Ma lui, Di Matteo una risposta dentro di sé ce l'ha; la mafia risolve ogni problema presto e bene. Cosa Nostra ha sempre nutrito odio verso Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza, magistrati e giudici troppo solerti, cioè verso servitori dello stato che svolgono il loro dovere in maniera onesta ed impeccabile, maniacale, ma fin dagli anni 70 non ha mai disdegnato “attaccamenti” all'interno delle Istituzioni e del mondo politico, sempre naturalmente per trarne dei vantaggi propri.

 

Aggiustamenti di processi, ad esempio, come nel caso del Maxiprocesso in Cassazione a Palermo alle cosche degli anni 90 che riguarda anche la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti. Lo dice chiaro Di Matteo, chi ha voluto pensare che questa sentenza (quella su Andreotti) abbia voluto assolvere da tutte le accuse l'ex senatore si sbaglia di grosso, o non vuol vedere la verità. La Cassazione dice: ”...Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano rapporti amichevoli con alcuni boss mafiosi... ha chiesto a loro favori... ha omesso di denunciare la loro responsabilità su fatti gravissimi di cui era a conoscenza, tra cui l'omicidio del Presidente della Regione Sicilia Pier Santi Mattarella (fratello dell attuale Capo dello Stato)... malgrado potesse fornire utilissimi elementi di conoscenza... ”.

 

Ma la prescrizione dei reati ha cancellato quasi tutto; quasi... Salvo Lima, il suo emissario, il suo referente in terra di Sicilia ne ha fatto le spese, trucidato nel marzo del 1992 perché il suo Capo a Roma non è stato in grado di mantenere le promesse.  “Ci dobbiamo pulire i piedi” avrebbe confessato anni dopo (1996 Rebibbia) Giovanni Brusca, neopentito responsabile dell'attentato di Capaci, riferendosi ad una frase di Riina riguardo alle promesse non mantenute dei politici (in quel caso proprio Andreotti).

 

Seminare discredito all'interno delle forze dell'ordine che conducono indagini, isolare quei magistrati che non si arrendono, eliminare i giudici che non cedono a ricatti, come nel caso di Antonio Saetta, trucidato con il figlio nel 1988 per non essersi piegato ai voleri dei clan di taroccare un processo, individuare gli anelli deboli della catena repressiva ed attirarli subdolamente e con promesse anche economiche in un circuito dal quale non riusciranno più ad uscire: questo era, in quegli anni,  uno degli obbiettivi chiave dell'organizzazione malavitosa.

 

Il pentito Salvatore Cancemi dichiara proprio a Di Matteo: ”Potevamo sopportare tranquillamente 5 o 6 anni di galera anche legati alla branda, ma dovevamo assolutamente evitare che scattasse la condanna all'ergastolo per il solo fatto di essere componenti della Commissione Provinciale”. Ecco, la Cupola, di cui parlavano, per lo più inascoltati se non addirittura isolati Falcone, Borsellino, Chinnici e altri come i poliziotti Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Beppe Montana trucidati dalle bombe e dalla lupara per non aver ceduto ai ricatti.

 

L'organizzazione mafiosa ha bisogno dei contatti con le istituzioni predisposte alla lotta contro di essa e con la politica, ma certamente non ha tutti i torti Riina quando dice che “sono loro che cercano noi”. Ma perché un uomo delle istituzioni cerca di tradire? Perché cerca “attaccamenti” con ambienti malavitosi pur sapendo che prima o poi il tutto verrà a galla? Per soldi, per vantaggi di carriera, per ambizione e sete di potere, o per Ragion di Stato? Dalle indagini condotte dalle Procure è emerso come Cosa Nostra operasse dei veri e propri sondaggi prima di compiere stragi ed omicidi; sondaggi a livello territoriale e nazionale, per comprendere a chi avrebbe potuto giovare la morte di questo o quel magistrato o giudice o poliziotto.

 

Anche grazie alle intercettazioni telefoniche ed ambientali sono emersi fatti sconcertanti, come ad esempio il coinvolgimento dei cugini Nino ed Ignazio Salvo, due personaggi che in quel periodo(anni 80 e90) “non erano solo semplici costruttori, ma i veri padroni della Sicilia anche dal punto di vista imprenditoriale con conoscenze ad alti livelli governativi”, nell'omicidio del procuratore Rocco Chinnici, allora capo di Falcone e Borsellino nel pool antimafia. La politica ha sempre avuto bisogno, o meglio, ha sempre cercato l'aiuto della mafia per i suoi interessi elettorali ed economici soprattutto in Sicilia ma non solo, e se lì sull'isola c'erano i Salvo o c'era Ciancimino o c'era Lima nel continente c'erano le alte sfere a discuterne ed a trarne vantaggio.

 

Se si va ad analizzare una per una le vicende dei tanti uomini delle istituzioni uccisi dai sicari di mafia, si può facilmente scoprire che “ognuno di loro rappresentava una pericolosa anomalia all'interno dell'ambiente in cui operava”, questo dice Di Matteo. Tradotto in parole semplici quelle erano persone da eliminare perché avevano compreso e volevano svelare l'intreccio tra politica e criminalità, tra amministrazione della cosa pubblica ed affari loschi, tra Stato e Mafia.

 

“I mafiosi pregano con la bocca ma mentono con la lingua: “così ripeteva ogni santo giorno don Pino Puglisi, un'altra vittima delle cosche, ucciso nel settembre del 1993 nel quartiere palermitano di Brancaccio,  dove predicava giornalmente ai giovani la valenza del bene contro il male che pervadeva la sua città. Sì, perché i mafiosi, così come odiano politici e forze dell'ordine allo stesso modo odiano i preti e gli esponenti del clero, o perlomeno quelli che si espongono in prima persona; li odiano ma nello stesso tempo ne traggono vantaggio e se ne servono. Minacciano di morte da anni don Ciotti e la sua associazione Libera, lo detestano anche solo per il fatto di usare le proprietà confiscate ai clan per scopi socialmente utili, ma poi vanno in chiesa tutte le domeniche e sbandierano apertamente il loro falso Credo fatto di opportunità e menzogne, fanno la comunione, prendono l'ostia  ma poi gradiscono gli “inchini” durante le processioni davanti alle loro ville guardabili ma intoccabili.

 

Quella del magistrato antimafia, soprattutto per chi vive in determinati territori “sensibili”, più che un lavoro è una vocazione, ma purtroppo le ricostruzioni e le teorie di tanti giudici vengono sistematicamente ignorate o dimenticate “in primo luogo da tanti politici che sostengono la lotta alla mafia solo a parole”. Se è vero che dalla metà degli anni 90 in poi l'organizzazione abbia,per così dire, cessato il fuoco, abbia cioè abbandonato la strategia stragista,è altrettanto vero che la sua presenza sul territorio sia sempre più che allarmante, ed invada in maniera molto più subdola e meno appariscente gli apparati dello Stato.

 

Non bisogna assolutamente abbassare la guardia proprio ora, lo dice chiaro il magistrato Di Matteo, “il venir fuori, nelle nostre inchieste, di possibili patti e di coperture istituzionali ad alto livello mi ha rafforzato l'idea che la lotta alla mafia deve a tutti i costi essere condotta a 360 gradi e sono convinto che la maggior parte dei servitori dello Stato la pensi come me”. Sì, Nino di Matteo, siamo in molti a pensarla come te, come chi c'è stato prima di te e come chi verrà dopo di te.                                                                                                                                
                                            

Rossi Mauro '59, Tirano

 

____________

COLLUSI di Nino di Matteo e Salvo Palazzolo, BUR Futuropassato pag 186  euro 16.50

LASCIA UN COMMENTO:

DEVI ESSERE REGISTRATO PER POTER COMMENTARE LA NOTIZIA! EFFETTUA IL LOGIN O REGISTRATI.

0 COMMENTI