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La Leggenda del Prete della Valle della Ganda e della Rupe dei Corni

CULTURA E SPETTACOLO - 13 06 2017 - Méngu

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/I Cràp del Còren della Valle della Ganda
I Cràp del Còren della Valle della Ganda

Scrissi tempo fa su questo giornale: “Se la Valtellina perdesse i propri dialetti, sarebbe come se un gigantesco incendio mandasse in fumo tutti i boschi, o se si prosciugassero tutte le sorgenti. Un pezzo di valore incommensurabile della nostra storia, della nostra cultura plurisecolare andrebbe perduto. Andrebbe dissolto, smarrito e perduto quel meraviglioso insieme di sensazioni, sonorità, profumi, emozioni che solo il dialetto ci sa mettere nell’animo. Scomparirebbe l’anima della nostra Valtellina perché i nostri dialetti profumano di antico e portano dentro di loro la nostra storia di millenni.”

 

Vorrei dimostrare quanto ho scritto sopra presentando alcune leggende del tiranese e sul Castelàsc scritte in dialetto, raccontate (scusate la mia dizione) in MP3 e poi tradotte in italiano. La leggenda letta in Italiano perde quel “profumo di antico” che il dialetto porta dentro di sè. Buona lettura.

 

La leggenda del Prete della Valle della Ganda e della Rupe dei Corni      

Giovani, non avete mai sentito cantare il gufo? 
E’ un uccello che si fa sentire nei boschi  appena arriva il buio mentre va in cerca di cibo.
Il suo canto è simile a quello di una capra, fa spavento. sembra  quello di un  bambino che piange.
Eppure io sono diventato l’amico di un gufo.

 

Vi racconterò la storia. Ero in quel di Ronco, stavo riposando sotto un tiglio, il sole era tramontato , soffiava un filo di vento che faceva venire la pelle d’oca se non si metteva un maglione. 
D’un tratto  ho sentito il canto del gufo.
Arrivava dai prati dei Goss, vicino alla Valle della Ganda.
Da ragazzino mi hanno raccontato che quando si sente il canto del gufo, il gufo si è svegliato e s’è svegliato anche lo spirito del Prete della Valle della Ganda.  
Era un Prete con l’anima dannata che girava con il turibolo acceso sotto la Rupe dei Corni e recitava le litanie per scontare i suoi peccati.

 

Quando ero piccolo, appena sentivo cantare il gufo mi nascondevo sotto il grembiule della nonna, ora che son diventato vecchio il gufo non mi fa più paura.
Allora , con coraggio , ho fatto il verso del gufo che assomiglia al verso di una capretta e il gufo mi ha risposto; più mi avvicinavo, più si spostava verso la Rupe dei Corni.
Arrivati sotto la Rupe, il gufo è diventato muto.
Tutto d’un tratto, in mezzo al bosco ho visto arrivare un uomo vestito di nero con una roncola in mano , veniva verso di me e dava colpi di roncola a destra e a sinistra sulla ramaglie.
“Perdinci”, ho detto io”. Non sarai per caso il Prete della Valle della Ganda? “

 

Lui arrabbiato e con il falcetto in mano mi ha detto:
“Taci testardo e ascolta! Vattene a Tirano e fin dove tu puoi arrivare  fa conoscere a tutti la mia apparizione in questo luogo e per mio volere fa che si conosca la mia dannazione per i miei misfatti, la mia storia è scritta su questo rotolo di pelle di capra, leggilo e poi brucialo”.
Io, un poco spaventato , gli ho risposto” stai tranquillo  lo  farò sapere a tutti . “
Subito dopo l’uomo con la roncola  è scomparso  nel bosco.
D’un tratto il mio amico gufo , appollaiato sulla Rupe dei Corni, si è messo a cantare e io subito gli ho risposto. Sono rimasto sotto la Rupe dei Corni con il rotolo che puzzava di zolfo più di due ore prima d’aprirlo , quando l’ho aperto  e l’ho letto ho sentito scorrere qualcosa nel cavallo dei miei calzoni. 
Eh… quando vi racconterò la storia  del Prete della Valle della Ganda  capirete perché mi era scappata molle, molle, giù per le cosce.

 

Ora però ho deciso di raccontare la storia.
Lassù, in località Piscìna  appena sotto la caserma del Forte di Canali, per chi non lo sa , ci sono due Rupi fatte come due corni che dominano a picco sulla Valle della Ganda. 
Quelle due Rupi sono come due guardie che ricordano con rabbia quello che era successo tanti anni fa; è una leggenda che adesso vi racconterò.
Da tempo immemorabile , proprio dove si incontra l’Adda e il Poschiavino , c’era un laghetto  con in mezzo una piccola isola , piccola e fatta solo di sassi rotondi  dell’Adda : i nostri vecchi la chiamavano Teràda.

 

Sotto la montagna, dove adesso ci sono le selve di castano, in fondo alla valle , c’era un paesino chiamato Vulpéra.
Era un paese fortunato perché da lì si poteva prendere la barca e risalire la valle, allora la frana di Sernio non era ancora scesa , era tutta pianura  e l’Adda si diramava liberamente  per tutta la piana del bel paese di Tirano. 
A Vulpéra c’era una povera vecchia buona ma poveretta , che aveva solo una capra magra più di lei. Prima  la capra mangiava l’erba e dopo mangiava la vecchia Ramabagùli perché mungeva il latte da  bere e così campavano tutte e due. 
Quelli di Vulpera chiamavano questa vecchia Ramabàguli perché appena la sua capra faceva la pupù , scaricando piccole biglie di sterco, lei subito correva a raccoglierle e le metteva nel grembiule per portarle a casa , ma quelle biglie di cacca sono state per lei una condanna : e volete sapere il perché ? 

 

Eh. dovete sapere che a quei tempi arrivavano in Valle, una volta tanto, quei Monsignori tutti vestiti di rosso, con un cappello grosso come fosse una secchia  rovesciata  in testa, per far le visite pastorali ai poveri cristi e ai contadini.
Quei giorni di visita erano giorni brutti per le galline e per i conigli, perché i Reverendi incappellati  mangiavano molto e rosicchiavano anche le ossa.I Monsignori diventavano molto pesanti così che facevano fatica a camminare. 
Era successo che in un bel giorno di visita , il buon prete di Vulpéra  aveva preparato  un grande festeggiamento , ma per fortuna s’era salvata dalle padelle la capra  della povera Ramabagùli .

 

Verso mezzogiorno, quattro omoni si sono avviati al porto con la portantina  per aspettare il Monsignore  che arrivava in barca  da laggiù , ma quando hanno visto il Monsignore così pesante  scendere dalla barca , Pietro, che era un birbante, ha pensato di domandargli se si potevano fare due viaggi : prima portare il suo corpo e poi la sua anima, ma il Reverendo non gli ha risposto. 
Che carica ragazzi!
Tutte le strade di Vulpéra erano ricoperte di petali di rosa  in onore al Monsignore e quelli della portantina camminavano storti  da non vedere nemmeno la strada tale era il loro sforzo. 
A Pietro era scappata una scoreggia per il grande sforzo quando erano inciampati in una buca e si erano sbilanciati.
Il prete di Vulpéra aveva fatto suonare le campane , sonagli di mucca  e di capra in suo onore e l’aspettava sul portone della chiesa.

 

La vecchia Ramabàguli  sapeva che il Monsignore sarebbe passato di li  e così per fargli onore aveva disteso per quel pezzo di strada un tappeto di sterco secco di capra che sembrava di biglie. 
Quando sono passati di lì i quattro forzuti con il Monsignore, Pietro è scivolato sopra lo sterco  e così la portantina si è un poco rovesciata  e al Reverendo  è caduto il cappello in mezzo allo sterco. 
“Sacrilegio! Sacrilegio” ha gridato.
Povera vecchietta, di cose di valore aveva appena lo sterco di capra  e lei , per far onore al visitatore, aveva  disteso in strada quello che aveva raccolto in tanti anni di fatiche. 
Niente da fare!

 

Il Monsignore e il prete di Vulpéra  e tutta l’altra gente l’ hanno condannata  a morire di fame con la sua capra sopra l’isola di Teràda  in mezzo al laghetto .
Così dopo quindici giorni la vecchia è morta di fame e la capra belava giorno e notte vicino alla morta , ma nessuno, nessuno, proprio nessuno l’ascoltava  nessuno, proprio nessuno aveva compassione  e nessuno voleva sotterrare la povera Ramabàguli. 
Una notte che tuonava e che lampeggiava, la gente di Vulpéra ha visto la capra con gli occhi rossi di fuoco saltare l’Adda e salire sulla montagna, sotto i monti della località Piscina.
Ma ecco che dopo poco quel pezzo di montagna è franato di colpo e ha sotterrato il paese di Vulpéra  e ha ricoperto anche l’isola di Teràda dove c’era la vecchia Ramabàguli distesa sopra i sassi rotondi.
Quella capra è rimasta li a guardare  la rovina e intanto belava contenta, però dopo un poco è morta anche lei per la gran fatica.
Se voi fate due passi e arrivate su posto vedrete solo i suoi corni che son diventati di sasso e grandi come una casa. 
Eh... questa è la storia delle due Rupi dei Corni.
Voi che avete fegato e che non avete niente sulla coscienza, provate a girare per la Valle della Ganda  quando lampeggia  e tuona e sentirete ancora belare la capra  e a scoppiettare nei sassi le scarpe chiodate del Prete della Valle della Ganda.

Méngu

 

 

Lettura in dialetto (Clicca qui per ascoltarla)

Giuan, i mai sentüü cantà ‘l cabrabèsul?
L’è ‘n urscèl  ché ‘l sa làsa fò ‘n tèi bùsch apéna ‘l vée nòcc, ‘n cérca dé mangià.
‘L so vers ‘l par quèl dé ‘na càbra, ‘l fa ampresiùn, ‘l par ‘n raisìn che ‘l frigna.
Epür mi sòo diventàa amis dé ‘n cabrabésul.
Va la cùnti sù.
Séri a  Runch, lauràvi a pusà  sùta  ‘n tìglio,’l sul l’éra calàa, ‘l bufàva chèl fil dé vént ché ‘l ta fa vegnì sü la pèl d’òca se ta métet mìga su ‘l magliùn.
Dè ‘n bòt  u sentüü  ‘l vèrs dé ‘l  cabrabésul.
‘L rüava scià de i pràa dé i Goss , visìn àla Val dé la Gànda.
Da raisìn i ma cuntàa  sü ché quàndu sé sént ‘l vèrs dé  ‘l cabrabésul, ‘l cabrabèsul  ‘l sa deséda fò  e anche ‘l deséda fò ‘l spirìt  dé ‘l Prèvet dé la Val dé Gànda.
L’èra  ‘n  Prèvet cùn l’anima danàda,  ché l giràva  cùn ‘l turibùl pìzz  sùta ‘l Cràp dé ‘l Còren  e ‘l  diséva sü la  curuna dé li litanii par scuntà i sö  pecàa.
Quàndu séri pìscen , apéna sentivi ‘l cabrabesùl, ma piacàvi sùta ‘l scusàl dé l’àva,  adés  che sòo diventàa  vécc , ‘l cabrabèsul ‘l ma fa pü paura.Alùra, cùn curàgiu, u fàcc ‘l vérs  del cabrabèsul che ‘l sumìglia al vèrs dé la càbra giùena e ‘l cabrabésul ‘l ma respundüü.
Pü mi  ma visinàvi,  pù lüü ‘l sa spustàva vérs ‘l Cràp dé ‘l Còren.
Rüa sùta ‘l Cràp, ‘l cabrabesùl l’è diventàa müt.
Tüt ‘n dé ‘n bòt, ‘n mèz ‘l bùsch ,  u vèdüü sultà  fò  ‘n  um  vestìi dé négru  cùn ‘ na  pudèta ‘n màa , ‘l vegnìva vérs de  mi  e ‘l tìràva  cùlp dé pudèta ‘n scià e ‘n là  su i fràschi.
Sacranùn, gùu dìcc:  Tàa sarée mìga   ‘l Prèvet dé la Val ? 
Lüü, ‘ncazàa e cùn la pudèta ‘n màa ‘l ma dìcc:
“Tàs  maüch e  scùlta!
“Vattene a Tirano e fin dove tu puoi arrivare e a tutti fa conoscere la mia apparizione in questo luogo e per mio volere fa che si conosca la mia dannazione per i miei misfatti, la mia storia è scritta su questo rotolo di pelle di capra, leggilo e poi brucialo”.
Mi, ‘n pìt stremìi , gòo dìcc : ‘ stà pacifìch, gàl ‘l faròo  savè a tücc “.
Subìt dòpu l’um cùn la  pudèta l’è sparìi ‘n mèz àli fràschi.
Tüt ‘n dé ‘n cùlp ‘l  mè  amis cabrabèsul, pundàa su ‘l Cràp dé ‘l Còren, la tacàa a cantà e mi sùbit gòo respundüü.
Sòo restàa ilò sùta ‘l Cràp dél Còren cun  chèl ròtul che ‘l spüzzava de zòfràch pusèe de dùi ùri prìma de dervìl, quàndu lu dervìi e lu legiüü u sentüü giù vargùt ‘n tèl cavalòt déli bràghi.
Eh … quàndu va cünteròo la stòria del Prevàt dela Val déla Ganda capirìi parchè la méra scapàda ledìna ledìna giù par i galùn. 

Adès però u decidüü de cüntàvala sü.


Ilò a Piscìna apéna sùta la végia casérma del Fort déi Canài, par chi i la sa mìga, gh’è dùu crap facc a còren che i vàrda giù a piùmp la val dèla Gànda.
Chèi crap iè cùma dùu angégher che i spìa fo de gnèch par chèl che l’è sucedüü tancc agn fa; l’è ‘na legénda che adès va cünti sü.
De anòrum, pròpi ilò andùa ‘l sa ‘ncùntra l’Ada cun ‘l Pusc’ciavìn gh’éra ‘n laghèt cun an mèz ‘na  isula pìscena piscéna facia anùma de bucc rudùnt de Ada, che i noss vècc i ciamàva Teràda.
Sùta la muntagna, ilò ‘ndùa adès ‘l gh’è li sèlvi de àrbui ‘n funt àla val, ghéra  ‘n bèl paesìn ciamàa Vulpéra.
L’éra ‘n paés furtunàa parchè de igliò s’pudéva ciapà la barca e andà sü par la Val, alùra l’éra gnamò vegnüü giù la rüina de Seren, l’éra tüt piàt e l’Ada  la sa spantegàva cùma la vuléva lée par la piàna del noss bèl paes de Tiràn.
A Vulpéra ‘l gh’éra ‘na pòra végia dabéna ma puarìna, che la gh’éra giüstu ‘na càbra schìscia püsée  dé lèe. 
Prìma de maià l’érba la càbra la mangiava e dòpu la mangiava la vègia Ramabagili perché la ga tiràva fo ‘l lacc par bèv lée e iscì i scampàva tücc dùu.
Chèi de Vulpéra i ciamàva ‘sta vègia, Ramabàguli parchè apéna la so càbra la picàva fò ‘na bàgula, lée la curéva a ramàla sü e i la metéva giù ‘n tèl scos par purtàla a ca e chèli bàguli iè po stàci la so cundàna; eh..  vulìi savè ‘l  parchè?
Eh .. ghìi de savè che a chèi tèmp, i rüava sü par la Val ‘n bot ùgni tant, chèi Munsignùr tücc vestìi de rus e cun sü ‘l capèl gros cùma sa ‘l füss ‘na sedèla anversàda ‘n cràpa par fach li vìsiti ài por làuu, ai por  cuntadìn. Chèi dì de vìsita ièra dì brücc par i ciùn, par  li galìni e i cunìc parchè chèi Reveréndi ancapelàa i rusegàva giù de brüt àa i òs , e i Munsignùr i vignìva iscì pesànt che i fàva fadìga a tiràs rée.
L’è sücess che ‘n bèl dì de vìsita, ‘l bun prévat de Vulpéra, la preparàa ‘n grant festegiamént ma par fürtùna ‘l sèra salvàa déli padéli , la càbra dèla pòra Ramabàguli.
Vèrs mesdì, quàtru marcantòni i sa inviàa ilò al port cun la purtantìna par specià ‘l Munsignùr che ‘l rüava ‘n bàrca de giù de igliò, ma quàndu ia vediüü ‘l Munsignùr iscì pesànt a sultà giù, ‘l Pédru che l’éra ‘n balòs, la pensàa sùbit de dumandàch se ‘l pudéva fa dùu viàcc, prìma purtà ‘l so corp e po la so ànima, ma ‘l Reveréndu ‘l ga gnàa respundüü.
Che càrga matèi!
Tüti li stràdi de Vulpéra iéra quarciàdi de pétali de rösi ‘n unùr del Munsignùr e chèi déla purtantìna iéra li süta gavèi che i vedéva gnàa la stràda parchè iéra sùta sfors;‘l Pédru ‘l gh’éra fina scapàa ‘na scurègia par ‘l sfors quànda la ciapàa int  ‘na zòca e ‘l séra ‘mbarcàa.
‘L prévatt de Vulpéra l’éra  fàcc sunà campàni, brùnzi de vàca e sunài de càbra ‘n so unur e l’éra ilò fo dèl purtùn déla gésa che i la speciàva.
La végia Ramabàguli la savèva che ‘l Munsignùr ‘l sarès pasàa de ilò e iscì ànca lée par fach unùr l’éra destendüü par chèl toch de stràda ‘n tapée de bàguli séchi de càbra che i parèva azalìni.
Quànda iè pasàa de igliò i quàtru marcantòni cun ‘l Munsignùr, ‘l Pedru l’è slitàa sùra li bàguli e iscì la purtantìna la sa ‘n pìt ‘nversàda e al Reveréndu ‘l ga crudàa giù ‘l capèl  ‘n mèz a ‘li  bàguli.
Sacrilégiu!
Sacrilégiu, la usà.
Pòra vegiàta, de valùr la ghéra apéna i bàguli e lée ‘n unùr dèl visitadùu , la tracc fo ‘n stràda tüti chèli che l’éra ramàa scià ‘n tancc agn de fadìghi.
Nigùt de fa!
‘L Munsignùr, ‘l prevàt de Vulpéra e tüta l’òtra  gént i la cundanàda a murì de fàm lée e la so càbra  sùra l’isula de Teràda ‘n méz ‘l laghèt de Teràda.
Iscì dòpu quindés dì la végia l’è mòrta de fàm e la càbra la besulàva dì e  nòcc visìn àla morta, ma negùt,  negügn, propri negün i  la  scultàva, negügn  i gh’éra cumpasiùn e negügn i vuléva suterà la pòra Ramabaguli.
’Na nòcc che ‘l trunàva e ‘l sberlusciàva la gent de Vulpéra ià vist chèla càbra cùn i öcc rus de föch sultà l’Ada e ‘nviàs sü par la muntàgna  ilò sùta  i munt de Piscìna.
Ma ècu che dòpu ‘n pìt chèl tòch de muntàgna l’è franàda giù de culp e la suteràa tüt al paes de Vulpéra e la quarciàa àa l’isula de Teràda andùa ‘l gh’éra la végia Ramabaguli destendüda sùra i sas rudùnt.
Chèla càbra l’è restàda igliò a vardà giù la rüina e ‘ntant la besulàva cunténta, parò dopu ‘n pìt l’è morta ànca lée par i strapàz.
Se vòtri fìi dùu pas e rüìi sü igliò, vederìì adés anùma i so dùu còren che iè vegnüü de sas e grancc cùma ‘na ca.
Eh … chésta l’è la stòria di dùu Crap di Còren. 
Viòtri che ghìi fidèch  e ché ghìi nigùt sü la cuscénza , pruìì a girà giù de igliò par la Val déla Ganda quàndu ‘l sberlùscia e ‘l trùna e sentirìì amò besulà la càura e a sciupetà ‘n tèi sas i bròchi déi scarpùn del Prevet dèla Val dèla Ganda.

 

Méngu

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