MENU

"Le due guerre" di Giancarlo Caselli

CULTURA E SPETTACOLO - 24 05 2017 - ROSSI MAURO 59 TIRANO

CONDIVIDI

/"Le due guerre" di Giancarlo Caselli

Il 23-05-1992 Giovanni Falcone viene trucidato a Capaci (PA), assieme alla moglie ed alla sua scorta da Cosa Nostra di Riina e Provenzano. Dal gennaio del ’93 sino a tutto il ’99 Giancarlo Caselli prende quello che avrebbe dovuto essere il suo posto presso la procura di Palermo.

 

Oggi, a 25 anni dalla stagione delle stragi, la mafia ha cambiato volto e strategie, ma, al contrario del terrorismo rosso, non è ancora sconfitta.

 

"Le due guerre" di Gian Carlo Caselli

L'articolo 3 della Costituzione Italiana cita:

“ Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinione politica e condizioni personali e sociali.

E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Purtroppo in passato sono stati in molti, come si evince dalle pagine di questo libro, gli uomini della Repubblica che, per interesse personale o di classe, per paura o per arroganza, hanno finto di non conoscere o di dimenticare queste poche righe.

 

Gian Carlo Caselli entra in magistratura non ancora trentenne. Nel 1967 infatti, neo laureato in giurisprudenza, diviene giudice istruttore presso il tribunale di Torino e lì, nell'arco di 10 anni partecipa ed è titolare di varie inchieste sul terrorismo “rosso” delle BR e di Prima Linea. Dal 1986 al 1990 è membro del CSM e nel 1991 entra a far parte della Commissione Stragi. Dal 1993 al 1999 prende l'eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e diviene procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, raggiungendo grandissimi traguardi nella lotta alla mafia con arresti di personaggi del calibro di Leoluca Bagarella, Gaspare Spatuzza e Giovanni Brusca, l'uomo che azionò il bottone a Capaci. Nel 2008 viene nominato, con voto unanime del CSM, procuratore capo della Repubblica di Torino, posto che occupa fino al 2013. Una vita trascorsa, non senza problemi, dalla parte giusta della barricata, una vita costellata di insulti, intimidazioni e delegittimazioni, una vita per lungo tempo “blindata”.

 

Fin dai primi anni '70 infatti, con l'inizio del maxiprocesso di Torino contro i capi storici delle BR e di PL, per tutta la sua permanenza a Palermo fino alla fine del '99 arrivando a tutt'oggi, Caselli vive praticamente sotto perenne scorta armata giorno e notte. E' incredibile il racconto in proposito, delle improbabili situazioni in cui più volte si viene a trovare, del totale annullamento di una benché minima vita privata e del rapporto che gioco forza viene a crearsi con le persone addette alla sorveglianza. Viaggiare sdraiato sul sedile posteriore di un auto caricata sopra un carro attrezzi per non dare nell'occhio assomiglia più una scena da film che non alla normale routine di un procuratore. Essendosi occupato nella sua carriera da magistrato sia di terrorismo che di mafia, in questo libro descrive le somiglianze(poche) e le differenze(parecchie) tra queste due entità di crimine organizzato e ne specifica i metodi di contrasto.

 

Perché, si chiede, lo Stato ha saputo vincere, seppur pagando un prezzo molto alto in termini di vite umane, la guerra al terrorismo, mentre lo stesso Stato ( o perlomeno alcuni suoi settori) non è stato in grado di sconfiggere radicalmente il fenomeno mafia? Lo Stato, sostiene Caselli, “ha accettato di perdere una guerra che si sarebbe potuta vincere, pur di scongiurare il salto di qualità”; non è stato in grado insomma, o non ha voluto, passare dall'accertamento delle responsabilità dei vari capi “doc” come Riina o Provanzano all'accertamento e alla denuncia dei legami e delle collusioni esterne di Cosa Nostra.

 

Finché si è trattato di colpire il braccio armato la solidarietà verso gli inquirenti e la collaborazione da parte delle “alte cariche” sono state unanimi, le lodi e gli elogi sono arrivate quotidianamente e da qualsiasi settore, ma non appena si è arrivati a toccare una certa parte della benestante società civile ed a smascherarne le colpe e le collusioni, per intenderci, non appena si è giunti a parlare dei vari Ciancimino, fratelli Salvo, di grandi finanzieri, presidenti di regione, di grandi Cavalieri del lavoro di Catania e su su fino ad arrivare a Giulio Andreotti, ecco che allora gran parte dello Stato non solo ha gettato la spugna, ma è arrivata addirittura a ripudiare ed isolare coloro che avevano rischiato la vita in prima linea: “è come andare contro un carrarmato armati con una cerbottana” avrebbe dichiarato Giovanni Falcone di fronte al totale abbandono in cui si erano venuti a trovare lui, Borsellino e gli altri colleghi del pool negli anni immediatamente seguenti il maxiprocesso di Palermo e poco prima della loro morte.

 

Pur trattandosi di due entità diverse, in entrambi i casi, sostiene Caselli, le possibilità di successo aumentano se si agisce su tre fronti contemporaneamente: quello investigativo e giudiziario, quello culturale, ossia informare e sensibilizzare obbiettivamente l'opinione pubblica, e quello dell'attacco non solo alle azioni criminali, ma anche alle radici del fenomeno. Sul piano investigativo due sono le priorità; specializzazione e centralizzazione, ossia mettere in atto dei rapporti continui tra i vari settori che svolgono le indagini e creare delle banche dati nazionali ed internazionali che possano essere consultate in qualsiasi momento e luogo.

 

E' grazie a questi presupposti che negli anni '70, gli anni del grande processo di Torino contro le BR, proprio presso la Procura del capoluogo piemontese nasce il primo esempio di “pool” investigativo, un'esperienza che avrebbe portato enormi successi, arresti e condanne e, verso la metà degli anni 80 la fine dell'emergenza per il terrorismo rosso. Un modello investigativo che non poteva certo ignorare Antonino Caponnetto, il successore, presso l'Ufficio Istruzioni di Palermo, di Rocco Chinnici ucciso dal tritolo il 29 Luglio del 1983; fu proprio Caponnetto a contattare i magistrati piemontesi e chiedere chiarimenti sul loro modello organizzativo. Nacque così il “pool” di Falcone, Borsellino, Di Lello Guarotta ed altri.

 

Specializzazione e centralizzazione avrebbero portato nel giro di pochi anni ad arresti eccellenti, al maxiprocesso contro l'ala armata di Cosa Nostra celebrato nell'aula bunker del carcere dell Ucciardone a partire dal 1986 ed alle condanne di parecchi boss presenti o ancora latitanti. Un grande successo investigativo che culminò con la sentenza di 19 ergastoli tra i boss Corleonesi e più di 2600 anni di carcere tra 460 imputati grazie anche alle rivelazioni di uno dei primi pentiti di mafia, Tommaso Buscetta, che in seguito si vide decimare la famiglia dai sicari dei clan. Un grande successo soprattutto se si considera il fatto che in quegli anni ancora non era previsto, nel Codice Penale, l'articolo 416bis ( che contempla l'associazione a delinquere di stampo mafioso ) tanto invocato da magistrati come Falcone o Pio la Torre, o dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa, tutte persone trucidate da Cosa Nostra.

 

Quell'articolo venne approvato solamente nel 1992, così come il 41bis che prevede il carcere duro e che avrebbe scatenato una vera e propria ansia tra i boss che non avrebbero più potuto impartir ordini da dentro le carceri e che avrebbe dato il via ad una serie lunghissima di pentimenti eccellenti, dimostrando che la specializzazione non risulta necessaria ed utile solo nella fase investigativa, ma anche in quella legislativa, con la creazione di leggi “ad hoc” per le situazioni di emergenza. Naturalmente le stagioni dei grandi processi scatenarono reazioni violente sia in Sicilia sia nel Nord, dove la dottrina terrorista aveva radici soprattutto nei grandi centri urbani, nelle grandi fabbriche e in vari circoli “culturali” e verso la quale dottrina, per un lungo periodo, si è potuto riscontrare un certo lassismo(se non addirittura pacata accondiscendenza) da parte soprattutto di determinati settori della società civile e della politica.

 

“Il punto di forza dell'ideologia brigatista e di Prima Linea” dice l'autore “è che la rivoluzione non si processa, la lotta armata non si condanna”, soprattutto non può essere condannata da uno Stato “fascista ed imperialista” che non condivide la causa proletaria. Molte furono le vittime in quegli anni bui, giudici come Alessandrini e Francesco Coco, ma anche avvocati, poliziotti come il maresciallo Berardi, sindacalisti impegnati come Guido Rossa, ucciso per aver denunciato le infiltrazioni brigatiste nell'Italsider di Genova o giornalisti come Walter Tobagi, ucciso perché “troppo bravo nel suo mestiere”.

 

Il gesto culminante di questa ideologia delirante fu il rapimento di Aldo Moro e l'uccisione della scorta nel 1978, atto che i terroristi rivendicarono proprio dalle gabbie del tribunale di Torino durante lo svolgimento del Maxiprocesso. Le BR chiesero uno scambio di prigionieri ma le Istituzioni scelsero, dopo un lungo travaglio, la via della fermezza; tutti sappiamo come poi finì la storia il 9 maggio 1978. Ma questa vicenda tragica segnò in qualche modo l'inizio di un lento ma graduale isolamento dei movimenti terroristi e della lotta armata, grazie anche alla costante sensibilizzazione da parte degli organi inquirenti nei confronti della società civile e ad una lunga scia di pentimenti e dissociazioni che vennero regolati con leggi speciali in molti casi fortemente osteggiate.

 

Quello dei pentimenti e delle dissociazioni fu allora un tema molto combattuto e che suscitò non poche controversie e dubbi soprattutto di carattere morale nei confronti dei parenti delle vittime che più volte criticarono duramente di garantismo gli addetti ai lavori, ma che la maggior parte degli inquirenti, compreso Caselli, ritenevano allora e ritengono a tutt'oggi un fattore di estrema importanza senza il quale la battaglia sarebbe stata molto più dura e la fine molto più lontana. Se per la sconfitta del terrorismo l'apporto dei pentiti si rivelò essenziale, per quanto riguarda il problema mafia la questione si rivelò molto più delicata, considerando anche il fatto che schierarsi contro Cosa Nostra significava morte certa per se stessi e per i famigliari.

 

Tristemente nota è la vicenda di Giuseppe di Matteo, figlio 14enne del pentito Santino di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per più di 2 anni e poi disciolto in un barile di acido, così come l'omicidio del padre di Gaspare Spatuzza, un altro boss ad avere girato le spalle ai clan. Certo, soprattutto immediatamente dopo le stragi del '92 confessioni ce ne furono e portarono ad arresti ed a confische di beni per miliardi di euro e di arsenali di armi degni di una vera e propria guerra, ma col tempo certi settori delle istituzioni ma anche grosse fette della popolazione civile dimostrarono di non gradire troppo la situazione e spesso sul banco degli imputati e sotto la gogna mediatica finirono i giudici ed i magistrati anziché i delinquenti: “ la ricerca della legalità impediva la vita normale” cosi avrebbe commentato lo storico Paul Ginsborg e questo è il pensiero di Giovanni Falcone sul tema già negli anni 80: “Se è vero che una delle cause principali dello strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti con la politica e con centri di potere extra-istituzionale, potrebbe nascere il sospetto, nella perdurante inerzia nell'affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di restarne coinvolti”.

 

Se il terrorismo fu un fenomeno subalterno alla società italiana, al contrario la mafia fu e ne è tuttora presente nei gangli vitali, e molto spesso ne detta i tempi ed i modi; non può essere considerata solo una banda di gangster, dice l'autore, altrimenti non saremmo qui a parlarne da oltre 2 secoli, in nessun paese al mondo una banda di gangster resiste per più di 30-40 anni. A riprova di questo e dei grossi ostacoli “dall'alto” che la lotta alle cosche ha sempre dovuto superare, il giurista e politologo Gaetano Mosca scriveva già cent'anni fa che “ il funzionario pubblico onesto presto comprende che se vuole combattere i soliti onorevoli usi a trescare colle cosche mafiose....dovrà intanto abituarsi ad essere esposto alle trame e alle calunnie che si ordiranno contro di lui a Roma”. Sta di fatto comunque che l'euforia per gli esiti del Maxiprocesso del 1986 e per le condanne durò poco, nei mesi successivi il “pool” venne smantellato, le varie indagini vennero frammentate e riassegnate e tutti gli sforzi fatti sembrarono cadere nell'oblio. Borsellino,criticato anche duramente in un articolo di Leonardo Sciascia (che poi se ne scusò ammettendo di essere stato male informato ) pubblicato sul Corriere della Sera dal titolo “ i professionisti dell'antimafia” si trasferì a Marsala, dopo un duro e violento atto d'accusa sulle “manovre in corso in Sicilia”, una netta condanna su indagini arenate e veleni nei palazzi di giustizia che si concludeva così “ ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia ritornare indietro” .

 

Caponnetto tornò a Firenze e Falcone, che secondo logica avrebbe dovuto prendere il suo posto a capo dell'ufficio Istruzioni della Procura, si vide preferire un altro candidato più accomodante verso certi settori della pubblica amministrazione che rese subito noto il suo pensiero: lui del “pool” e del metodo Falcone non sapeva che farsene. Per QUEI magistrati non c'era più posto a Palermo. Falcone, anche su richiesta dell'allora ministro degli Interni Claudio Martelli, si trasferì a Roma presso il ministero per dirigere l'ufficio Affari Penali, da dove nel giro di pochi anni riorganizzò su scala nazionale la lotta alla criminalità organizzata con la creazione della DNA ( direzione nazionale antimafia), della DDA ( direzione distrettuale antimafia) e della DIA ( direzione investigativa antimafia), un modello che venne studiato in seguito dalle agenzie investigative di parecchi paesi, in primis proprio dall'FBI nella cui sede a Quantico in Virginia è presente a tutt'oggi una statua in ricordo del magistrato di Palermo.

 

Ma la lontananza dal vero “campo di battaglia” pesava ed in un'intervista ai tempi dichiarò “anche se dovessi occuparmi di furti d'auto alla mafia ci arriverei comunque”. Nel frattempo, inevitabilmente, in Sicilia le azioni di contrasto vennero meno ed il braccio armato di Cosa Nostra si ricompattò, fino a giungere al 1992, l'anno di Capaci e via d'Amelio. All'inizio le istituzioni sembrarono reagire, piovvero arresti eccellenti, si confiscarono beni e danaro che poi paradossalmente uno Stato oppresso da regole e burocrazia nella maggior parte dei casi non seppe come riutilizzare, si ascoltarono pentiti a volte sinceri a volte fasulli, ma, come già successo in precedenza, l'allerta durò poco e le indagini non si spinsero oltre il braccio armato del movimento evitando quel salto di qualità tanto auspicato per il quale tanti magistrati hanno lottato anche a costo della vita.

 

La “sindrome dei 2 anni”, così la definisce Caselli, ovvero il tempo concesso alle procure per indagare su determinati fatti prima che le deleghe vengano revocate e tutto cada nell'oblio. In una recente intervista Giuseppe Di Lello, uno dei componenti del pool di Falcone e Borsellino, in relazione alla situazione attuale dichiara “ a volte la mafia alza il tiro provocando la reazione dello Stato, come sempre viene repressa l'ala militare ma non viene mai messa in discussione la compenetrazione del sistema.....le imprese sono il nodo, nella crisi la potenza economica della mafia serve moltissimo.....le estorsioni servono unicamente a pagare gli stipendi degli affiliati, molti imprenditori usano la mafia come fonte di finanziamento per aprire grandi catene di commercio, supermercati, alberghi, questo è il vero business....i grandi capitali sporchi del passato e del presente si fondono nell'economia reale, viaggiano dentro canali normali e non rintracciabili....”.

 

Insomma, l'organizzazione ha cambiato strategia, niente più stragi e omicidi, ma una costante penetrazione del territorio e dell'economia e non più solo al sud. Questo libro, come scrive Marco Travaglio nella postfazione, è un album di varie famiglie. La famiglia di Caselli, con la sua vita perennemente blindata e la famiglia delle varie classi dirigenti italiane alle prese lungo gli anni con i suoi figli malati e degeneri: il terrorismo, la mafia e la corruzione. Se si è riusciti a combattere ed a sconfiggere il primo, che imbevuto di ideologie si è rivoltato contro i suoi stessi padri, altrettanto non si può dire per gli altri due, figli legittimi e dello stesso sangue dei padri medesimi. Qualcuno ci ha provato, persone come Caselli e altri nominati in queste pagine vissuti in trincea per anni, elogiati ed osannati nel momento in cui facevano piazza pulita degli eversori rossi o dei killer di Cosa Nostra ma delegittimati, considerati incapaci, politicizzati,addirittura golpisti quando cercavano di salire ai piani alti.

 

L'accanimento politico-mediatico contro l'autore di questo libro è stato, negli anni, tanto violento quanto costante soprattutto da parte di coloro che dell'articolo 3 della Costituzione dovrebbero farne un faro ma che spesso decidono di dimenticarsene. Da fascista ai tempi di Torino, è divenuto in seguito toga rossa, fallimentare, aggiustapreti ed altro ancora. Il giornalista Paolo Liguori, allora direttore di tg, fu scoperto a complottare contro di lui in una discussione in barca con l'imprenditore sardo Grauso implicato in un'inchiesta, dichiarando di essere pronto a cercare sostegno, se necessario, nientemeno che in Previti e Berlusconi pur di gettare fango addosso al giudice. E non è andato per il sottile neppure il senatore a vita Cossiga, che negli anni di piombo, allora presidente del consiglio, venne chiamato in causa nelle indagini relative alla cattura del terrorista Marco Donat Cattin, figlio dell'allora presidente della DC e ministro del suo governo: in una puntata di Porta a Porta di qualche anno fa l'ex Capo dello Stato esortava gli italiani a “prendere a calci in culo Caselli in qualsiasi occasione”.Una delegittimazione ed una colpevolizzazione, quella verso certi magistrati, che hanno avuto uno dei suoi picchi con il caso del processo a Giulio Andreotti. Sebbene la sentenza definitiva nel 2005 accertasse la colpevolezza dell'imputato (che usufruì della prescrizione) per i reati di associazione mafiosa ( perlomeno su fatti precedenti la primavera 1980), sebbene la Cassazione dichiarasse che il senatore “ ….ha quindi coltivato relazioni con gli stessi boss...ha palesato agli stessi una disponibilità....ha interagito con essi....ha omesso di denunciare le loro responsabilità di cui era a conoscenza in particolare in relazione all'omicidio del presidente della Regione Sicilia Pier Santi Mattarella....ecc ecc”, questa sentenza fu totalmente capovolta e storpiata dalla politica e dalla quasi totalità dei media, che trasformarono il colpevole in vittima e gli accusatori in carnefici.

 

Se Anna Finocchiaro reputò “una perdita di tempo parlare della sentenza Andreotti”, per Clemente Mastella, allora ministro della giustizia, “invece che parlare della sentenza di Palermo ad Andreotti bisognerebbe fargli un monumento”. Ecco, anche questi sono nemici dei giudici, anche loro, soprattutto loro sono i nemici dell'articolo 3 della Costituzione; è stata relativamente breve la “primavera giudiziaria” come veniva definita il periodo della vera innovazione delle procure; poi è arrivato come un tornado quello che Roberto Scarpinato ha definito “il ritorno del Principe”, che ha spazzato via tutto. Ma questo libro e molti altri sono rimasti ed è giusto che vengano letti.

 

ROSSI MAURO 59 TIRANO

 

LE DUE GUERRE di Gian Carlo Caselli ed. Melampo, pagg.157 € 12.75 anno 2009

LASCIA UN COMMENTO:

DEVI ESSERE REGISTRATO PER POTER COMMENTARE LA NOTIZIA! EFFETTUA IL LOGIN O REGISTRATI.

0 COMMENTI