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11^ parte - Le calamità del 1987 in Valtellina

CULTURA E SPETTACOLO - 19 05 2017 - Mèngu

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/alluvione 1987

Questo scritto, diviso in diverse puntate, è dedicato alle 53 vittime delle calamità che si abbatterono nell’estate dell’87 in Valtellina e ai giovani, perché non dimentichino il “male antico” della valle.

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Parte 1Parte 2Parte 3Parte 4Parte 5Parte 6Parte 7, Parte 8, Parte 9, Parte 10

 

Luglio 1987.

Dopo quei terribili giorni del 17-18-19 luglio che avevano causato la spaventosa alluvione, il tempo si era rimesso al bello, ma la sventura non era ancora finita.

La pioggia aveva inferto un colpo di maglio tremendo alla valle. Ciò che era visibile era stato minuziosamente segnalato, ma parte della natura aveva perso in quei giorni il suo equilibrio.

 

La grande quantità di acqua caduta aveva dato inizio ad un evento che avrebbe cambiato la Valdisotto.

Questa volta non si poteva dare la colpa all’opera dell’uomo anche se molte volte aveva trascurato la natura.

 

La pioggia era stata catastrofica! L’acqua, scendendo dalle valli, aveva innescato dei fenomeni di erosione, aveva trasportato, come altre volte e forse di più, grandi quantità di detriti. Si era calcolato che il totale delle precipitazioni in valle avevano raggiunto i 600 milioni di metri cubi d’acqua, di questi ben 250 milioni erano defluiti a valle trascinando con sé quasi 120 milioni di metri cubi di detriti.

La valle dunque aveva subito delle mutazioni geologiche e si erano innescati in molti luoghi fenomeni franosi di piccole e grandi dimensioni.

 

La frana traditrice di Val Tartano che, pur di modeste dimensioni, aveva causato vittime era stata una frana superficiale, dovuta alla fortissima imbibizione d’acqua nel manto prativo. Anche quella era stata una frana impossibile da prevedere, era caduta in una zona dove da centinaia d’anni i contadini avevano costruito le loro case e non avevano mai avuto danni di sorta.

 

Altre vecchie frane però erano ben conosciute in valle. Quella della Val Torreggio interessava circa 3 milioni di metri cubi di materiale morenico e minacciava di chiudere il corso del torrente.

V’era l’antica frana di Spriana che dava grandi preoccupazioni per il fiume Mallero e per la città di Sondrio.  

 

Ma una frana ben più grande, silenziosa e poco conosciuta, si stava muovendo sulla valle.

La frana che nell’ agosto del 1982 era caduta sopra Le Prese era un segno premonitore che in quella zona qualcosa stava per succedere.

 

Nei giorni 17-18 luglio 1987 a Morignone, S. Antonio Morignone, Poz e Tirindré era successo il disastro. La magnifica piana era stata allagata, le case erano state invase dall’acqua, i paesi erano circondati da una palude fangosa. Centoventi persone che stavano transitando nel tratto di strada tra S.Antonio Morignone e il ponte del Diavolo restarono intrappolate con le loro automobili nelle strade allagate; con fatica riuscirono a mettersi in salvo, scappando sulle pendici dei monti e raggiungendo S. Martino di Serravalle.

 

Chilometri di strada statale 38 erano stati spazzati via, ma nessuno dopo quei giorni si era arreso. La popolazione locale, con una forza d’animo eroica, si era rimboccata le maniche e ognuno stava facendo la propria parte per poter ancora vivere in quei luoghi disastrati.

 

Le televisioni e la stampa elencavano mattina e sera nei telegiornali le impressionanti notizie delle sventure capitate in valle.

Questi i titoli! “ Paura, disperazione, morte”, “La morte ha il colore del fango“, “Fusine, deserto di sassi”, “ Dopo il diluvio”, “Un’alba color catastrofe: 20 i morti, danni enormi, turisti in fuga”.

 

La Valtellina aveva subito dei danni, ma dall’informazione che riportavano i giornali sembrava non potesse più risollevarsi. I cronisti conoscevano poco i valtellinesi e la loro valle. I danni erano stati rilevanti, ma la storia insegnava che ben presto la Valtellina avrebbe alzato la testa e si sarebbe rimessa il vestito della festa.

E poi, che motivo v’era di recare ulteriore danno riportando immagini spesse volte distorte ed inesatte nel raccontare le cose accadute?

 

La stagione turistica di luglio, purtroppo, si chiudeva negativamente, ma vi era ancora tutto il mese di agosto e settembre. La speranza della ripresa del turismo e di una vita normale era reale. I turisti affezionati alla Valtellina non avrebbero mai abbandonato la loro terra di riposo e di quiete; anzi la loro presenza avrebbe dato forza e coraggio alla popolazione in valle.

Era certo! Ma certa stampa sembrava andar contro corrente e presentava al mondo una valle distrutta. Si rischiava d’avere, oltre l’alluvione, un ulteriore danno d’immagine della valle.

 

Pochi raccontarono i magnifici fatti di altruismo e di abnegazione della gente in quei giorni che seguìrono l’alluvione; in tutti si risvegliò l’antico spirito di solidarietà valtellinese. Si piansero i morti e poi subito al lavoro, con rabbia, a denti stretti, per salvare il salvabile e tornare a vita normale. Donne, giovani, anziani andavano a dar una mano nelle pulizie delle case alluvionate; perfino i turisti rimasti bloccati in valle davano il loro aiuto.

 

Sindaci, amministratori, carabinieri, uomini dell’esercito, Croce Rossa, in prima fila il Prefetto, tutti indistintamente si prodigarono allo spasimo per poter vivere ancora in valle. Il 22 luglio il ministro della protezione civile Zamberletti, con una minuziosa relazione sui danni in Valtellina, riferì l’accaduto alla Camera. Riferì che più di seimila persone avevano dovuto  lasciare le loro abitazioni. Riferì che i valtellinesi si erano già rimboccati le maniche ed erano già al lavoro per salvare il salvabile. Occorreva però subito l’aiuto economico della Nazione per la ricostruzione.

 

La bassa e media valle fu la prima a rimettersi in piedi.

La statale 38 allagata a Morbegno e Talamona fu presto ripristinata, lo stesso si fece per la statale a Berbenno,  a Chiuro e a Tirano.

In alta valle la situazione però era più grave.

 

Bormio era isolata a causa della statale 38 distrutta a Le Prese, a Morignone e S. Antonio Morignone . Come nell’agosto del 1982 i bormini però si erano già messi al lavoro a Morignone e a S. Antonio Morignone per cercare di ripristinare la statale e dare una mano alla gente del paese per liberare dal fango le case.

 

Intanto che si lavorava in quei paesi disastrati c’era però anche chi andava sui monti a verificare se le cose lassù erano normali, se la grande alluvione avesse fatto dei danni che a prima vista non apparivano.

 

Ma chi erano quelli che potevano verificare lo stato di cose in montagna ? Certamente quelli che la conoscevano palmo per palmo perché lassù vi lavoravano o perché l’amavano a tal punto da conoscerne ogni zolla, ogni avallamento. Solo chi ama la montagna e chi la lavora riesce a percepire i suoi sospiri, i suoi movimenti.

 

Lassù anche le bestie erano inquiete; i contadini avevano visto fuggire via gli animali da quella zona e avevano visto le tane delle marmotte vuote; il segnale era terribile e preciso!

 

Così anche in quei giorni Adriano Greco, un uomo che conosceva quei luoghi al pari delle sue tasche e che infinite volte era andato lassù in quei boschi a dar sfogo alla sua grande passione per la montagna, scoprì che sul monte Zandila alcune fenditure erano comparse nel terreno.

 

Ecco il valore eroico dell’uomo! Il tempo di scendere precipitosamente a valle per avvertire chi di dovere. Qualche ora dopo  c’erano lassù i tecnici della Protezione Civile, il geologo Michele Presbitero, responsabile del servizio regionale nell’ambito della Protezione Civile e il valtellinese Maurizio Azzola.

 

Quel corridore d’alta quota , quell’uomo che amava la sua montagna aveva visto giusto, aveva intuito il pericolo della frana e aveva avvertito la sua gente e i tecnici avevano rilevato il pericolo facendo evacuare la gente nella zona sottostante la massa franosa.

Non successe come a Piuro, dove gli abitanti morirono sotterrati dalla frana.

 

L’uomo in questi casi può far poco se non togliersi dalla zona di pericolo e aspettare che gli eventi capitino o che la situazione si normalizzi in modo tale che la natura possa trovare il suo equilibrio. In questi casi non è colpa del disboscamento, non dell’incuria dell’uomo, sono gli eventi della natura che si evolvono.

 

(Continua… )

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