SARAJEVO
Non ho un buon rapporto con le bandiere, credo sia a causa del loro potere di sintesi. Interi mondi, stili di vita, secoli di storia dentro dei semplici pezzi di stoffa, mi è sempre sembrato troppo poco, voglio dire, non dobbiamo aver per forza bisogno della semplificazione, di un simbolo. Le bandiere possono compattare le genti racchiudendo le speranze di un intero popolo, possono marcare una proprietà o segnalare un pericolo, farci riconoscere un nemico, possono farci credere di lavarci la coscienza mentre la scritta pace sventola coi colori dell'arcobaleno dai nostri balconi tra le polveri sottili, ma non possono esistere senza un'altra bandiera che le fronteggi.
Esistono proprio in virtù dell'opposizione a qualcosa d'altro che, di solito, finisce per avere un'altra bandiera.
Le bandiere fingono di unire, ma in realtà dividono, sono un'occasione persa.
La Bosnia è piena di bandiere, ma quella che ci ha dato più problemi ha 50 stelle e 13 strisce. E' proprio mentre cerchiamo di fotografarla che da lontano qualcuno mi chiama. E' un militare bosniaco che con la mano mi fa cenno di andare verso di lui, intanto mi viene incontro lento, divisa scura, stemma della Bih sulla spalla, giubbotto anti proiettili, anfibi e un fucile da caccia all'alce. Siamo davanti all'ambasciata Statunitense di Sarajevo, un monolite grigio lungo il viale dei cecchini. Chiamo Emanuele e ci avviamo verso quell'uomo come dovessimo andare al patibolo, ci dice qualcosa di incomprensibile e ci porta da un collega davanti all'ingresso, ma nemmeno lui conosce mezza parola di inglese, ci tengono lì qualche secondo ed esce un funzionario dell'ambasciata pieno di stemmini made in USA. Non potevamo fotografare l'ambasciata ovviamente, ma a noi interessava la bandiera soltanto. "No photo, please delete!". Io mollo subito il colpo, prima che mi sequestrino il telefono, Emanuele è più combattivo, gli spiega che vuole fotografare soltanto la bandiera con il cielo sullo sfondo, nessuna foto dell'ambasciata, gliele mostra una per una. "Please delete!". Manu continua a chiedere "why? why?" e poi "Checcazzo ma devo tornare in Italia per fare una foto alla bandiera statunitense?" Loro insistono e non ci lasciano andare finché non eliminiamo tutte le foto dai telefoni."Look, elimina, it means delete, it's ok now?".
Credo che oltre a sapere di avere un po' il culo sporco, siano diventati paranoici da quando nell'ottobre del 2011 un ventitreenne originario di Novi Pazar in Serbia, si è presentato davanti a quell'ambasciata con un Kalashnikov aprendo il fuoco sull'edificio e ferendo alcune guardie di sicurezza come quelle che avevamo appena incontrato. Un pessimo dejavù per i Sarajevesi, proprio sul viale dei cecchini.
Il ragazzo è poi risultato essere appartenente ad una comunità Wahabita, che segue una corrente "ultraconservatrice" dell'Islam che si è sviluppata storicamente nella penisola arabica. Per intenderci, è la linea di pensiero dalla quale sono usciti Osama Bin Laden e i Taleban afghani, studiosi del Talib. In i wahabiti in Bosnia sono i discendenti dei soldati islamici (Mujaheddin) che negli anni novanta sono giunti da paesi come Arabia saudita, Afghanistan, Pakistan e Cecenia in sostegno dei bosniaci mussulmani impreparati alla guerra. Ricordo che Darko, di cui vi ho già parlato, mi ha spiegava che i mussulmani di Bosnia si sono talmente spaventati durante le ultime guerre che anche a Sarajevo quasi tutti quelli che hanno la casa con il giardino, fanno costruire delle stanze segrete in cui conservano le armi. E pensare che le nazioni unite portano avanti da tempo campagne per la riconsegna delle armi in questa regione.
I wahabiti rimasti, che seguono questa corrente diversa dalla tradizione islamica bosniaca, sono oggi stanziati in vere e proprie enclavi sparse per tutta la Bosnia, paesini in cui vivono seguendo la Sharia, ci sarebbe piaciuto visitarne qualcuno, ma ci hanno detto che ci sono controlli all'ingresso dei paesi e non ci avrebbero lasciato entrare quasi certamente.
Ma torniamo a noi con i cellulari in mano fuori dall'ambasciata, cancelliamo, salutiamo i padroni del mondo e proseguiamo la nostra camminata. E' l'ultimo giorno intero a Sarajevo, mi sono svegliato alle 7 per scrivervi l'ultimo report e quando erano quasi le 11 abbiamo deciso di andare a piedi da un capo all'altro della città, dalla Barscarsija fino a Dobrinja, appena prima dell'aeroporto, dovremmo metterci una, forse due ore.
In periferia, tornano a farci compagnia i palazzoni sovieticheggianti, austeri, alti e grossi, finestre in fila e pochi fiori sui balconi, anzi, proprio pochi balconi. Da un certo punto di vista fanno ridere perché mentre cercano di incuterci timore guardandoci dall'altro, ai nostri occhi appaiono come degli arlecchini colorati, visto che ogni buco o crollo parziale è stato rattoppato con mattoni, ora grigi, ora ocra.
Ci fermiamo al museo di storia, come Aisha ci aveva consigliato, la rivedremo stasera e non possiamo dirle che non ci siamo stati. Goran, ci si avvicina furtivo nei corridoi del museo e quando capisce che siamo italiani, dopo averci fatto vedere le foto di Genova e di Milano, ci propone un affare. Goran non è una guida, diciamo così, ufficiale, è una guida fai da te, che cerca di arruolare turisti proprio sulle scale del museo, per 25 euro ti fa fare un tour della città e racconta tutta la sua esperienza durante la guerra, dice che gode di molta fiducia parte degli italiani, di cercare su internet, dice che è il migliore: "Quando vedo ragazzo parlare di guerra, io dico fanculo vai a casa che tu non c'eri, io posso raccontare quello che ho visto, perché ho combattuto".
Che tipo.
A parte qualche p che diventa b, come per i nord africani, parla un ottimo italiano ed è contento perché cinque giorni prima del nostro arrivo è riuscito a fotografare il Papa proprio mentre passava lì, davanti al museo. Gli chiedo se è cattolico e si indurisce un attimo: "Questa domanda non serve, non ci serve di divisione, sola divisione è persone brave persone cattive". Ancora una volta quella divisione del grigio che ci spinge ad andare nel particolare rifiutando le semplificazioni. "Comunque sono mussulmano".
Il discorso prosegue, ci parla del figlio che vive in Italia e di quanto anche lui ami il nostro paese tanto da tenere i suoi documenti scaduti da Bolzanino in macchina per ricordo. Ci lascia il numero e diciamo che lo chiameremo domani, ma non chiameremo, già lo sappiamo, in lui c'è qualcosa che non ci convince fino in fondo, pare che si venda troppo e noi non abbiamo mai pagato nessuno dei nostri incontri, Goran sembrava più, in un certo senso, un uomo d'affari, il rischio era quello che ci avrebbe raccontato un po' quello che i turisti vogliono sentirsi dire, magari calcando la mano su alcune vicende o avvenimenti. Quindi, come da dichiarazione iniziale, prendiamo le decisioni di pancia. Lo salutiamo e lo lasciamo dentro al museo a lavorare per l'ultimo anno, poi basta, dice che se ne andrà in Australia.
Quando la sera rientriamo verso casa, troviamo sul web numerose recensioni entusiaste riguardo Goran e il suo tour, ma la pancia è pancia, anche nella cattiva sorte.
Rivediamo Aisha e si parla sciolti fin da subito questa volta, il ghiaccio rotto ieri, ormai si è sciolto del tutto, formando un torrente di parole che non vede l'ora d'arrivare al mare. Ci porta in un pub, davanti ad una birra per parlare meglio. Mentre camminavamo nel pomeriggio ho visto il Mc Donalds del centro che mi ha turbato un po'. Subito mi sono rattristato per una colonizzazione capitalista che stava completamente abbattendo la possibilità di un'alternativa, poi però mi sono arreso, un Mc Donalds nel centro è un simbolo riconosciuto, tranquillità, riconduce al noto ed annulla la distanza tra Milano Sarajevo e Sant Louis, penso che forse qualche risvolto positivo, per la Bosnia può anche esserci. Il Mc Donalds è una bandiera. Una bandiera di globalizzazione piuttosto becera e selvaggia, ma mi chiedo se qui non sia forse un bene, o quanto meno "qualcosa più di niente", ne parlo con lei ma non giungiamo ad una conclusione. Per loro mangiare al Mc Donalds è come mangiare in un ristorante di medio/alto livello e non si riferisce alla qualità del cibo ovviamente, ma al costo. Lo stipendio medio a Sarajevo può oscillare tra i 150 e i 300 euro al mese, i menù della catena hanno i prezzi praticamente uguali a quelli italiani. Gettiamo le basi per i lavori futuri e decidiamo che dovremo scrivere qualcosa assieme un giorno, magari uno di quei romanzi rosa che tengono le signore di mezz'età al cesso quando la stitichezza le colpisce, cioè sempre. Vedremo.
Un paio d'ore di parole dopo la dobbiamo salutare, sono le 21 ormai, Darko ci aspetta poco più in giù, al ponte latino.
Ci mangiamo un kebab in tutta fretta e lo digeriamo saltando su e giù da un paio di autobus senza biglietto per arrivare al caffè Tito, un locale divertente con cimeli bellici della seconda guerra mondiale disseminati un po' ovunque. Siamo nel covo del Maresciallo, come dice lui. Giusto il tempo di berci una birretta veloce salutando un paio di amici conosciuti sabato sera e ci spostiamo dall'altra parte del fiume altro locale, altra gente, stessa città.
Il Kino Bosna, era un teatro ai tempi di Tito più in là negli anni diventò anche un cinema. Oggi è un gigantesco salone pieno di gente che beve, balla e canta. I musicisti che si aggirano tra la gente con gli strumenti in mano, ma mi sono già dimenticato il nome della musica tipica, avrei dovuto portarmi l'agenda. Incontriamo il nostro amico giapponese, un quarant'enne che dormiva accanto a noi nel primo ostello, è piuttosto alticcio, ci abbraccia, mi fa rovesciare la mia rakia per terra e tenta di offrirci da bere, ma siamo a posto, grazie mister kim.
E' pieno di giovani il Kino Bosna, ma non solo, ci sono individui di tutti i tipi, incontriamo Antonella, un'italiana che lavora a Sarajevo per un ong a tutela della minoranza rom, provo a parlarci un po', ma non attacca, non ha voglia di parlare, ho la sensazione di averle rovinato l'isola felice che si era creata al di là dell'Adriatico senza italiani fra le palle, desisto e se ne va. Subito dopo incontriamo Claudio un bolognese che dopo l'erasmus ha deciso di trasferirsi. Nel frattempo Darko saluta alcune amiche che non vedeva da un bel po' di tempo, ma non stanno tanto bene, scavate e magre, dice che probabilmente hanno deciso di drogarsi a tempo pieno e la droga in Bosnia di certo non manca.
Sul più bello arriva la polizia, tre armadi in giubbotto anti proiettili che entrano facendo abbassare il tono di voce a tutto il locale, molti, vedendoli arrivare se ne vanno. Noi ci spostiamo all'esterno del locale e continuiamo a parlare un po'. Darko ci rincuora: "vedete, in tutto il locale ci saranno una trentina di pistole e uno su due ha in tasca un coltello, comunque bisogna stare attenti". Poi ci mostra un individuo in camicia hawajana, tatuaggi fai da te, occhiali da sole e grosse cicatrici in testa, da tipi come quello è meglio stare alla larga, sono quelli che hanno fatto la guerra e adesso sono schizzati, tempo addietro ce n'era in giro uno che aveva la pistola facile e se non stavi attento rischiavi di prenderti una pallottola per la minima cazzata, perché il problema qui non è il fatto che abbiano le pistole, è che non abbiano paura ad usarle.
Nonostante tutto, la serata al Kino Bosna prosegue tranquilla e felice, anche se purtroppo siamo noi che verso l'una la dobbiamo abbandonare, l'indomani abbiamo un pullman che partirà per un viaggio della speranza verso la Serbia attraverso la Bosnia interna, ci attendono altri paesi, altre frontiere, e, of course, tante, tante bandiere.
(Vi lascio con un piccolo componimento, che chiamar poesia è roba da matti, che avevo scritto qualche tempo fa ma calza davvero a fagiolo per questo report e questo viaggio in generale. Un tempo è anche stata una canzone, se ora non la facciamo più, ci sarà un perché. Ciao amici, come sempre "si naviga a vista").
BANDIERE
Ho ritirato le bandiere
dai balconi anneriti,
ho abbattuto le ringhiere
che ci separavano dalla strada,
Ma intanto tu aspetti me.
Vivo in una torre
con le mie cravatte sporche
che prima o poi mi impiccheranno,
le nostre battaglie sono
soltanto dei semi che
da tempo ormai non sono più nostri.
E intanto tu aspetti me,
soltanto, me.
DIARIO BALCANICO di L. Cometti
GIORNO 0 – “Piccola premessa doverosa”
GIORNO 1 – “Cosa andate a fare a Belgrado?”
GIORNO 2 – “Gli scarafaggi muoiono sulla schiena”
GIORNO 3 – “Le anime di Vukovar”
GIORNO 4 – “La resa di Doboj”
GIORNO 5 – “Leila Thirtyfour”
GIORNO 6 – “Darko”
GIORNO 7 – “Dove la logica si arrende, la Bosnia comincia, Aisha”
GIORNO 8 – “Le bandiere”
GIORNO 9 – “Viaggio in Republica Srpska”
GIORNO 10 – “Decompressione”
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