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MODI DI DIRE: "L’è bràu de làpa, ma l’è scars de pàta"

CULTURA E SPETTACOLO - 12 02 2014 -

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/ Fonte: Wikipedia.org
Fonte: Wikipedia.org
La rubrica, a cura di Ezio Maifrè, per capire i modi di dire dialettali, grazie alla spiegazione e ad un racconto specifico. Erano tutti diciottenni, belli forti e volonterosi, ma soprattutto si vantavano delle loro avventure e successi amorosi. Sto parlando della festa dei coscritti svolta nei prima anni ’60 . Non citerò il nome del personaggio, ancor vivente. Lo chiamerò però Bruno. Questo mio amico lo ricorderò sempre come ün che l’è ’è bràu de làpa, ma l’è scars de pàta ( uno che è bravo a parlare, ma scarso in amore ). Ai quei tempi la festa dei coscritti durava tre giorni per i più deboli di vescica e di stomaco e almeno quindici giorni per i più forti d’ogni “organo fisico”. Si girava con busta tricolore con medaglione in testa, con bandiera nazionale in spalla e con in mano pennello e barattolo di vernice al catrame scrivendo sui muri la storica a frase W il “ 4…, classe di ferro “. I più ganzi e mandrilli osavano scrivere guardinghi “ W la …. ” ( lascio spazio alla fantasia al lettore ). Ricordo che qualcuno aveva imbrattato il naso della statua in marmo bianco della Maria Luisa in piazza Cavour e anche un muro presso il Municipio” inneggiando” un amministratore. In quei quindici giorni anche i carabinieri chiudevano pietosamente un occhio, d’altronde allora la caserma in piazza non poteva ospitare tutti quei birichini. Alla sera, le stazioni della “via crucis” dei coscritti, erano le bettole della Tirano vecchia. Si beveva il nostro vino aspro. Si fumavano le Nazionali Esportazione e, dopo aver mangiato e ben bevuto, alcuni di questi coscritti partivano con la Giulietta 1300 GT per Brescia. Per Brescia ? Sì avete letto bene. Ma a far che cosa a Brescia ? La scusa era per mangiare polenta e uccelli, ma c’era sotto di ben’ altro… Prima di partire, però avvisavano le mamme, che ben conoscevano il difettuccio di gioventù dei loro figlioli. Dicevano : “ Màma stà pacifica, ‘n và ilò a Brèsa a màià pulenta e üsèi “ ( mamma stai tranquilla andiamo a Brescia mangiare polenta e uccelli). I padri e i nonni sentivano e, con occhi da sognatori, guardavano il cielo dicendo sottovoce: làsei andà ( laciali andare ) la gioventù non torna più. Le mamme capivano e dicevano: “Non mangiatene troppa, state attenti che sia fresca, genuina. Non si sa mai!“. Un rombo di motore e via ! Quella fame ai coscritti non cessava mai, l’avevano nello stomaco, ma ancor più nel cervello. Quella sera partirono in cinque alle 22.00 dalla piazza Cavour di Tirano, dopo aver bevuto alcuni calici di rosso. Partirono con la Giulietta 1300 di Luciano che nel tempo libero dai campi e dalla vigna faceva il contrabbandiere. Luciano alla guida, con a fianco Bruno e sui sedili posteriori Marco, Giancarlo e Piero. Prima della partenza si erano dati una mano sul retro per vedere la presenza del portafogli e controllato se fosse anche ben carico di soldi. Una tappa in un bar di Edolo per un calicino e suonarono le 22.30. Poi un’altra tappa a Iseo per un altro calicino ed erano già suonate 23.00. Infine giunsero al Carmine di Brescia alle 24 e rotti con stridore di gomme. Fortuna che a quei tempo non c’era ancora la polizia che controllava il tasso alcolico di chi guidava. Sarebbe bastato un fiammifero acceso presso la bocca di Luciano per incendiagli il fiato come una fiamma ossiacetilenica , tale era il tasso d’alcool nel suoi corpo. Peggio ancora sarebbe toccato ai trasportati che avevano ancora il fiasco del vino in mano mezzo vuoto. Una scintilla e sarebbero diventati quattro torce viventi. Al Carmine, con uno sbattere energico di portiere, ognuno si disperse in cerca di “polenta e di uccelli”. Dissero schiacciandosi reciprocamente l’occhio: meglio se gli uccelli fossero passere. Ore 2.00. Uno ad uno, alla spicciolata si ritrovarono presso la Giuletta 1300 GT, barcollanti e con la cinghia dei pantaloni molto lasca. Ognuno si aggiustò alla belle e meglio la camicia nei pantaloni e il tiro di cintura. S’avvidero che mancava Bruno. A questo punto occorre fare una precisazione. Bruno era considerato un ragazzo modello: casa, chiesa, chierichetto, oratorio, capoclasse e gran parlatore. Sapeva l’italiano vero e non “ l’italian del làres” ( l’italiano dei boscaioli ) perché figlio di maestri. Detto questo possiamo continuare il racconto. I coscritti aspettano mezz’ora, ma Bruno non arrivava. Suonarono le 3.10. Eccolo arrivare barcollante sorretto da una ragazzona. La bionda si avvicinò ai quattro che erano in macchina ad aspettare e disse: “ pòta, l’è vòs amis stù tambèrlu? “ ( è vostro amico questo buono a nulla? ) “ Si” , risposero in coro, l’aspettavamo. La ragazzona seccata rispose “ pòta,ga darési dùu sciafùu.Ma beìi, mangiàa pulenta, ma de òsel u vedüü gnàa l’umbrìa“  (gli darei due schiaffoni : abbiamo bevuto, mangiato polenta, ma d’uccello non ho visto nemmeno l’ombra ). Uno sbattere di portiere e via andare per Tirano; Luciano alla guida, mentre i quattro russarono sbronzi e sfiniti. Alle 5.00 giunsero in piazza Cavour in Tirano. Luciano con una strombettata svegliò gli amici che scesero dalla macchina sbadigliando e stiracchiandosi. Uno di loro vide che sulla targa della giulietta 1300 GT era attaccata con spago una grossa verza. Bruno stupito disse: “com’è successo ? Hai forse sbandato con la macchina e siamo finiti in un campo di verze? ” Luciano ridendo disse: “ Tambèrlu, de ‘n tambèrlu , te l’ha regalata la bella ragazzona di Brescia perché ti ricordassi che se nato sotto una verza” . Passò una settimana e giunse il sabato. La gita si ripeté, ma senza Bruno che era ormai considerato dai suoi amici coscritti “ ün bràu de làpa, ma l’è scars de pàta”. Tale rimase la sua fama fino ai nostri giorni. Ezio Maifrè

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