Aspettando il Carnevale e il "brüsà la vègia" - 1^ parte
CULTURA E SPETTACOLO - 09 02 2018 - Méngu
Affinché si possa fare conoscere e amare le tradizioni e il dialetto tiranese alle giovani generazioni. Statuto Comunale di Tirano all’art. 3, comma 7 cita: “ Il comune tutela le risorse ambientali, naturali, storiche e artistiche presenti nel proprio territorio e in particolare salvaguarda cultura, tradizione e dialetto locali per garantirne la conservazione nel tempo. Oggetto di particolare cura e tutela dovranno essere i Monumenti nei quali si è storicamente identificata la comunità tiranese.” ( * ) es. il Castelàsc In tempi lontani i contadini avevano bisogno, per la ripresa delle attività contadine primaverili, di ripulire le vigne e i campi dalle erbacce infestanti e dai piccoli arbusti che erano cresciuti nel precedente anno. L’erba infestante e i piccoli arbusti li raccoglievano in mazzi e li bruciavano sul posto, e in particolare modo anche in occasione del carnevale” dei Vècc per brüsà la vègia“ . L’erba preferita era l’assenzio (scéns) per il suo profumo e il suo rapido bruciare; il fascio d’erba si legava con un filo di ferro e sotto il mazzo si infilava un lungo bastone (bachèt) , formando così una torcia chiamata “ paiaröl “ . Il “paiaröl” si bruciava roteandolo lentamente tra grida e schiamazzi nella sera di Carnevale, dando fuoco alla “vègia” posata su un cumulo di legna secca in località Campone a anche al Castelàsc. Ricordi di gioventù “Quanta aqua l’è pasàda sùta i punt ” da quel lontano 1956 quando io, per l’ultima volta sullo stradone del Campone, ho bruciato la “ Vègia cun i paiaröi “. Alla sera , allora al Campone sulla statale 38 , si poteva giocare al pallone. Erano poche le macchine che passavano. Quando l’ultima filovia passava silenziosa, con un colpo di claxon l’autista ci avvisava e “ nòtri ‘n gh’é faséva strada “ saltando ai bordi dello stradone mentre il pallone si infilava sotto quel gran camion con i bidoni di cemento e le corna che strisciavano sui fili elettrici. Quella sera dei “ paiaröi” era un giorno di festa per noi ragazzi. La vecchia da bruciare era pronta in contrada e attendeva il supplizio nella corte dei “Casàt” . L’avevamo costruita con gli stracci rubati . Alle mamme rubavamo “ mandrùn e strasc de lana “ che erano i materiali più pregiati per “ ‘mbastì la végia “. Personalmente una volta avevo sottratto “ l’urinàri smaltàa de l’àva “ per metterlo in testa alla “végia” della Contrada di S. Maria. Il mio amico Luciano aveva sottratto “’l cutìn de lana de l’àva che l’éra quasi nöf”. La paglia ce la forniva volentieri il “vèciu Pédru Bernardèla, ché l’era ‘n scrìgn dei bei regòrcc déla cuntràda e del Castelàsc “ . La contrada di S. Maria era la nostra contrada e lì doveva nascere la “végia pü strìa de tüti “. L’avevamo sognata d’inverno nelle stalle dove ci rifugiavamo al caldo delle bestie. Era fotografata nel nostro cervello e dovevamo solo crearla. Doveva assomigliare alla nonna Rina, quella “ carà vègia sapientùna “ che teneva bottega nella stalla per tutto l’inverno dicendo il bene e la caricatura di tutti e ad arte innescava dispute tra gli amori nascenti di ragazzi e ragazze . Nella serata dei “ paiaröi “ le nostre madri ci facevano mettere i “ pagn früst “ poiché sapevano per certo che, dopo la festa, i maglioni e i pantaloni sarebbero stati pieni di bruciature e sarebbero diventati “mandrùn de trà via ” . Ogni contrada portava la sua vègia al Campone sul carrettino e i ragazzi la seguivano armati di “ paiaröi “ . L’assembramento di gente era grandioso , c’era persino il Prevosto per controllare, se per caso,non si bruciasse qualche fantoccio di prete . Le “ végi “ erano poste in sequenza di” brüti stròleghi” e allineate al centro della statale. Il vociare dei ragazzi era incredibile, mentre i grandi si davano un gran da fare per preparare il supplizio. Ecco! Qualcuno dava il segnale di inizio rito. “ Nòtri rais “ facevamo circolo intorno la nostra “ vègia “. Ognuno di noi teneva il proprio “paiaröl “con il bastone a raso terra finché “ ‘l regiur “ non l’incendiava , poi lo facevamo ruotare innanzi a noi tenendolo alla larga dalla testa, infine ci avvicinavamo alla “végia” con fare spiritato dandole fuoco. Così facevano anche gli altri ragazzi delle contrade e in un baleno lo stradone del Campone si illuminava a giorno con il bagliore dei “ paiaröi e “dèli scarìzi “ mentre “ li vègi” lentamente prendevano fuoco . Per ogni “ vègia “ che arsa e consunta si inclinava e cadeva a terra tra scintille e bagliori, si alzava tra noi ragazzi un grido di gioia. Dopo un paio d’ore “ li vègi” erano arse; i grandi controllavano che i fuochi si spegnessero completamente e noi ragazzi continuavamo la festa nel sogno tra le calde coperte. La “ vegia “ ormai era “ scéndra” e le malefatte delle“ megére “ erano passate; si poteva iniziare un anno nuovo risanati. Il rito essenziale La “ vègia “, precedentemente preparata era sistemata su un carro nella piazza principale del paese. Poi, ad inizio rito, veniva condotta con una processione di ragazzi e di adulti, con i “ paiaröi “ in spalla, per le strade del paese che conducevano al luogo del supplizio, accompagnando la “ végia “ con schiamazzi e grida scherzose. Dopo un lungo tragitto , giunti sul luogo del supplizio, la vecchia veniva posta sopra la catasta di legna precedentemente preparata. Infine dopo i “ riti propiziatori “ i giovani più scaltri e attenti al fuoco accendevano i “ paiaröi “ e con questi davano fuoco alla catasta. Mentre la vecchia incominciava a bruciare, i giovani con i “paiaröi” accesi facevano da corona correndo e saltando, con grida e schiamazzi intorno alla catasta di legna che bruciava e se, del caso, partecipava anche la banda comunale con ritmi di allegria . Quando la “ vegia “ ormai semibruciata dal rogo si inclinava e cadeva nella brace , si innalzava un grido generale , che faceva tremare i vetri della case intorno. La “vecchia” ormai carbonizzata, che rappresentava la miseria , la fame, le disgrazie ,le malattie, il rifiuto di un passato negativo , scompariva tra la catasta in fiamme. Dopo più d’una ora di allegria, il rituale magico per invocare la primavera, la fertilità e la fecondità era così completato e si poteva tornare nelle proprie case sperando in un anno fecondo. (clicca qui per ascoltare il file audio) Apena scià Ginée sa cominciaua a dì la sira ‘n dèli stali: “ Ramii po scià ‘n quai strasc, vèra , vòtri matèi, se ‘m völ fa sü la vègia ! E anca votri bòci dif po ‘n poo de fa….” E notri, gnanca a dil ‘m sa lagaua fo cuma galècc de niàda a rügà scià, a scazzà ‘n de tüti li crapéni, ‘n tücc i bügegàcc ‘nde po mami e avi iàmmuntelaua oss, mandrun e strasc de lana, de dàgai po al strascée cura ‘l pasaua a magg ‘n cambiu de scüdèli u pècèni , u saùn, magari ‘n urinari de qùìi de fèr smaltàa, de tignì suta ‘l lècc cura che ‘s staua màl u l’era ‘n poo trop frècc per cur fin giù ‘n di l’ort a fa quèl che ‘s duveva…. E ghèra anca vargügn che a ris’ciu de ciapàli, al scüür u be de piach i ga rüvaua a tö quai pagn amò ‘n poo ‘ntregh per ‘mbutìi de paja falècc e paiaröi e fa ‘na bèla vègia…. Dopu, s’ sentiva usà di mami e ‘n poo ‘nrabbiadi: “ Quìi mustri i ma töcc sü ‘n bèl cutìn de lana, che l’éra quasi nöf ! Al ghera sì ‘n quai mendi e quatru cinq rapòtt, ma l’era anca mò bun “. E ‘n otra . disperada: “ I ma rubàa ‘l pedàgn de la mia pora mama “ ! Ma dopo la ‘ga pasaua e a brüsà sü la vègia li ‘gh staua be anca luri, la sira, fo ‘n Campùn de spöö del lögh del Pina dauanti ai Fazzinett! Aldo Pola (dizione di Méngu)
I paiaröi: una tradizione tiranese da far rifiorire
I paiaröi
Carneval vècc
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