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La dialettica esistenziale dello stagno come metafora dell'umanità

CULTURA E SPETTACOLO - 07 04 2018 - Alessandro Cantoni

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PRENDO IN PRESTITO le parole di Gaston Bachelard, epistemologo francese, filosofo e poeta vissuto nel XX secolo, per impostare una nuova riflessione: “Un filosofo disposto a osare, davanti a una composizione di Monet, potrebbe elaborare le dialettiche dell’iris e della ninfea, la dialettica della foglia eretta e della foglia pendula, pesantemente e saggiamente poggiata sul filo dell’acqua”.

 

È LO STESSO BACHELARD, più avanti, a fornirci la spiegazione.

In natura, ogni oggetto dell’esperienza sembra regolato da leggi e pare avere una sua sistematicità, organicità. Eppure la natura, come l’uomo, è un organismo fragile, soggetto a guastarsi. Michel de Montaigne, come Leopardi, provava compassione per i suoi contemporanei, convinti dell’infallibilità dell’uomo e della sua invincibilità. Eppure, tali qualità non si confanno alla vita terrena. La terra ci trascina inesorabilmente verso il basso, ricordandoci ad ogni istante da dove veniamo ed il luogo nel quale siamo destinati a dimorare.

 

Eppure, gli esseri umani, ma non soltanto essi, come vedremo a breve, avvertono la necessità di aspirare a qualcosa di più elevato, lontano, intangibile: il cielo.

Dalla terra al cielo, per usare una metafora efficace. Da Caravaggio, pittore della verità, a Raffaello, poeta lirico della luce.

La cruda realtà di Merisi è fatta di uomini e donne dai piedi sporchi, di prostitute, di sangue e di violenza, di analfabeti, di bari e di ragazzi di vita. Quella di Raffaello e, dopo di lui, dei fratelli Carracci, aspira a sfiorare Dio con le dita.

Caravaggio ci ricorda le nefandezze degli esseri umani, le sue bassezze più infime, mentre i Carracci sembrano suggerirci che siamo in grado di tendere verso più alte e nobili mete.

 

Il mondo naturale, ci dimostra Bachelard, agisce come noi, esseri animati dotati della ragione.

Osserviamo il cosmo e, in particolare, soffermiamoci sulla veduta di uno stagno, come era solito fare Claude Monet a bordo della sua piccola imbarcazione.

Scopriremo che anch’esso possiede una sua dialettica esistenziale, metafora della condizione umana.

Le ninfee, decantate nei poemi di Mallarmé, come Il nenufaro bianco, o nelle opere del celebre impressionista, ci rivelano una scoperta inedita.

Come noi, talvolta sembrano sfidare le forze di gravità, animate «da non si sa quale ribellione contro l’elemento nativo». Per riprendere le parole di Platone, sembra che anche i fiori, le piante, vogliano placare il loro animo concupiscente, radicato ai bisogni primari, alle mere necessità organiche, e per questo sfidano le regole del mondo, si innalzano verso gli astri celesti, alla ricerca di un Ideale.

 

Quella delle ninfee e soprattutto degli uomini è una «disperata voglia di copiare il cielo», direbbe Roberto Vecchioni.

Ma ecco che, improvvisamente, il mondo ricorda loro e a noi quel che realmente siamo e donde veniamo.

Allo stesso modo in cui i meravigliosi fiori acquatici ripiegano il loro stelo e sfiorano il bordo delle acque, così noi, coscienti della nostra umana debolezza, torniamo alla terra, alle radici, alla polvere.

Legittima aspirazione è quella dei poeti, degli artisti, dei filosofi. Non soltanto è comprensibile, ma necessaria.

Non v’è nulla di più straordinario che avvicinare Dio agli uomini, e non viceversa. Se è vero infatti che gli uomini non possono toccare il Cielo, è però possibile che quel blu immenso, profondo come il mare, si avvicini a noi, dandoci per un’istante l’illusione di aver ridato luce all’umanità, lacerata e ferita.

 

Oggi più che mai, abbiamo bisogno di guardare verso l’alto. Solamente uno sguardo, però, poiché anche a noi, come al nenufaro bianco, alla sera, tocca calarci nelle tenebre, tra le acque torbide e scure dello stagno.

Eppure, il cielo, con le sue nuvole, i suoi riflessi scintillanti e dorati dell’alba o del tramonto, viene a specchiarsi sull’oceano dell’umanità, mentre i raggi di sole squarciano gli abissi donando un po’ di quiete e di serenità ai tetri fondali.

Contempliamo dunque il cielo, e immergiamo i nostri cuori nella fonte della salvezza, della speranza. Ci riusciremo soltanto se sapremo marciare uniti verso l’alto, ascoltare la voce dei nostri sentimenti più nobili e se torneremo ad abbeverarci alla fonte pura del fiume Lete.

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Alessandro Cantoni

ALESSANDRO-CANTONS@HOTMAIL.IT

Studia filosofia all’Università La Sapienza di Roma.

Tra i suoi libri Viaggio nel mondo dell’arte e non solo

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