La questione balcanica
ECONOMIA E POLITICA - 18 12 2018 - Alessandro Cantoni
Ma che belli i discorsi sulla pace e l’orgoglio di fare parte di questo magnifico continente, l’Europa, ovvero un crogiuolo di Stati senza consistenza. Ed è giusto che sia così, suggeriscono dalle parti di Bruxelles. Certamente, perché senza questa prodigiosa Unione Europea saremmo ancora impegnati in incessanti guerre di supremazia. Le stesse che portarono la Germania degli anni Trenta al mito del Terzo Impero. Da anni, professoroni e intellettuali dei miei stivali vanno infinocchiando intere generazioni di studenti, sempre meno dotati di capacità critica autonoma e indipendente. Costoro hanno nelle loro mani il monopolio della cultura e dell’informazione, per cui anche quei pochi coraggiosi che osano sbeffeggiare le tesi propagandistiche di lorsignori finiscono per essere tacciati di ignoranza e di qualunquismo. «Tornate a studiare la storia», tuonano dall’alto dei loro troni ingioiellati. Bene. Allora gliela diamo noi una bella lezioncina di storia, spiattellandogli in faccia non le opinioni, ma i fatti inconfutabili di inizio secolo. Non mi illudo di poter convincere quei millantatori del monopolio culturale. Piuttosto mi rivolgo a quelle buonanime che avranno ancora la pazienza di seguirmi in questo ragionamento. BALLE STORICHE La prima parola che lorsignori accostano all’idea di Europa è quella di pace. Ma di quale pacificazione stiamo parlando? Di quella portata con le bombe nei territori della Bosnia-Erzegovina fra il maggio ed il settembre 1995? Ma no, forse si riferiscono ai raid aerei che devastarono la penisola balcanica fra il marzo ed il giugno del 1999. LA QUESTIONE BALCANICA Le vicende degli anni Novanta sono costellate di luci ed ombre. Più ombre che luci, in verità. Sia perché nella penisola balcanica non si era ancora superato il trauma del comunismo sia perché l’Europa, la benevola Europa, al metodo della carota ha preferito applicare quello più decisivo e autoritario del bastone. Una tiratina d’orecchie costata la vita a migliaia di persone. Ma veniamo al punto. I mal di pancia del leader serbo Slobodan Milošević si sono manifestati con una certa spontaneità dopo che, fra il 1990 ed il 1991, gli scudi biancorossi della Croazia si sono levati in nome dell’indipendenza. Il discepolo illegittimo di babbo Stalin non se l’è sentita di rinunciare alla sua piccola guerra personale. Perciò ha cominciato a randellare le minoranze croate nella regione autonoma della Vojvodina. Dì lì a poco (correva l’anno 1992) il mattatore in salsa sovietica se la sarebbe presa anche con i bosniaci. Motivo? La difesa della razza, in questo caso la minoranza serba, serva di un padre padrone dalle mire autoritarie. Nelle file della Comunità europea comincia a diffondersi la convinzione che l’etica del compromesso sia del tutto scellerata e inefficace. E come sempre è accaduto quando ci siamo trovati nei casini, abbiamo chiesto aiuto a Mamma America, sempre generosa e disponibile anche quando si tratta di procacciare armi e munizioni, non solo quattrini per la ricostruzione. I caccia-bombardieri a strisce bianche e rosse fanno venire la tremarella anche al compagno d’acciaio Milošević che, almeno per un po’, ripone la pistola nella fondina. Non per molto però. Giusto il tempo di riorganizzarsi per poi sferrare il nuovo attacco. Corre l’anno 1998 quando le tensioni scoppiano nella regione autonoma del Kosovo. Le rappresaglie e la «pulizia etnica» ad opera dei serbi si scatenano contro la minoranza albanese. Oltre 500.000 kosovari albanesi lasciano le loro case, gli affetti e se ne tornano in Albania o nella vicina Repubblica di Macedonia (anch’essa indipendente dal 1991). Questa volta la risposta militare degli Stati Uniti – ricevuto il beneplacito dell’Europa – è durissima. I bombardamenti procedono in maniera sistematica lasciando città in macerie e industrie devastate dalla furia dei combattimenti. A crepare non sono solo i serbi di Milošević, ma anche i civili. Sangue chiama sangue è la risposta di quelli che vogliono difendere i diritti della popolazione del Kosovo nei mesi caldi della primavera del 1999. Perché non spieghiamo anche questo nelle università, nei convegni e nelle manifestazioni pro-Europa? Perché non raccontare, dunque, che abbiamo delegato i nostri alleati per fare il lavoro sporco e poi prenderci il merito della vittoria e raccontare quanto siamo stati bravi? Alessandro Cantoni
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