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Amilcare, il mangia saiòt (cavalletta)

CULTURA E SPETTACOLO - 14 06 2021 - Ezio (Méngu)

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Vicende di Gente di Montagna

Ricordate le miriadi di cavallette che si vedevano sui prati dei nostri monti negli anni ’60? Entravi in un prato e zmmm… zmmm… ti facevano da corona al tuo passo e alcune ti saltavano sul naso. Erano verdi e lucenti con zampe d’atleta, con un salto aiutato da un battere d’ali facevano balzi di dieci metri e planavano come alianti sulle erbe che si piegavano sotto il loro peso. Per un poco se ne stavano quiete e poi via andare con altri possenti balzi , mentre le galline correvano all’impazzata per catturare questi “piccoli droni” “ e se li beccavano con goduria. Per l’agricoltura provocavano gravi danni e ai nostri tempi, con la disinfestazione, le bestioline volanti si sono ridotte di molto.

 

Fortuna per l’agricoltura , ma sfortuna per le galline di mia nonna poiché certe cavallette erano grosse come mignoli e con dieci di queste le galline facevano un pasto da dio e sfornavano uova dal guscio marrone talmente duro e sano che per romperli dovevi prendere il martello. Ricordo che l’amico Luciano, che ora riposa tra i giusti, un giorno a Ronco fece una scommessa con me dicendo :” Sei capace di rompere un uovo di queste galline ? “ Risposi con fare mussoliniano : “ Te lo spacco con un colpo di pisello “ . E lui : “ quello tienilo da conto, semmai adopera le mani ” , poi prese un uovo con il guscio marrone dorato da sembrare il sasso ferroso che mia nonna adoperava per rammendarmi le calze, me lo mise di punta tra il palmo delle mani e con un ghigno da gladiatore sibilò : “ schiaccialo tra i palmi delle mani e prova a romperlo “ . Premetti di punta l’uovo tra il palmo delle mie mani con sforzo sovraumano , tale da farmi partire una scoreggia pastosa da mettermi in pensiero poiché non avevo mutande da cambiare. Provai dieci volte ma non riuscii nell’intento . Luciano rise, prese l’uovo, lo ruppe di punta su un sasso e se lo sorbì, con un rumore da gorgo di acqua in un lavandino. Ho un ricordo delizioso di una poderosa cavalletta ( saiòt ) che a Ronco fece storia. Ecco il fatto che sembra incredibile ma è veritiero. Amilcare, detto il barba, ormai cinquantenne e senza fissa donna, era un armadio d’uomo con una pancia unita allo stomaco da sembrare “ gravido “ . Contadino da sempre, conduttore di “ priale “ e di muli ribelli, di quelli che se li maltratti ti tirano una doppietta di zoccoli ferrati da dividerti il sedere in due.

 

Era seduto nel banco principale della vecchia osteria del piazzale di Ronco. Era solo come al solito e con un ghigno da lanzichenecco e con una corona di tafani che gli ruotavano intorno da sembrare un santo. Quel ghigno feroce se lo era fatto a causa del suo mulo che ogni tanto si impuntava nel tiro della pesante “priala” e lui lo incoraggiava a procedere a colpi di bastone , ma il mulo aveva preso il carattere del suo padrone ed era sempre “ incazzato “. Quando non era giornata procedeva con passo “ avanti quasi indietro “ e occorreva stargli alla larga . Si diceva che Amilcare non ridesse mai e in effetti nessuno sapeva se avesse i denti poiché dei gran baffi neri gli coprivano le labbra. Però alcuni suoi amici coscritti raccontavano di averlo visto sorridere una volta quando lo avevano chiamato a Sondrio alla visita militare. Il tenente medico per sapere se i “ ragazzi “ erano VIR ( veri uomini ) con il palmo della mano destra, calate le mutande ai giovani, con una poderosa stretta del palmo della mano stringeva a loro la “borsa”. Se non emettevano gemiti erano abili al servizio e perfettamente VIR, in caso contrario erano detti “ scartàsc “ e li faceva uscire dal retro della sala visite per evitare sghignazzi delle loro ragazze. Giunto il turno di Amilcare, il tenente medico dopo avergli calato la ruvida mutanda, nel vedere gli “attributi” emise un grido di meraviglia e fece smorfie di compiacimento, poi con il palmo delle due mani gli avvolse la “borsa” e diede una possente stretta di mano con poderoso strappo . Risultato ? Amilcare si mise a ridere all’impazzata e disse al medico :” strincc , strìncc pü fort parchè ta mé fée nùma gàsciul “ . Il tenente medico prese il suo certificato medico e lo timbrò sette volte con la scritta “ abile arruolato, conducente muli “ . Ebbene in quel giorno a Ronco , Amilcare chiamò mia nonna e gli ordinò di portargli un litro di rosso del “ mazzacavàl “ poiché era arso della sete. La nonna corse in cantina e colmò la caraffa bianca e blu da un litro con la scritta “ Viva Rùnch “ “ e la pose sul tavolo, mentre le galline facevano preda di grosse cavallette. Una grossa come un dito e dalle ali da sembrare S. Michele Arcangelo , per sfuggire ad una gallina, s’alzò in volo e dopo un doppio ghirigoro planò nella caraffa del vino di Amilcare.

 

Non se ne accorse poiché era intento a chiacchierare con la nonna. Finito la “ confessione “, perché mia nonna pur non essendo prete , voleva sapere tutto di tutti, Amilcare prese la caraffa e come sua consuetudine, con un potente e unico sorso , la prosciugò . Ecco il dramma ! Stette per un attimo in silenzio e immobile, poi diede a smaniare e a torcersi il collo. Aveva ingoiato con il beverone la cavalletta che aveva l’armatura alare dura da sembrare quello che non posso dire. Non era la prima volta che Amilcare ingoiava animaletti e alcuni finivano in trappola tra i suoi baffi , i più sfortunati tra i suoi denti cariati da trovare abitazione, ma erano di piccole dimensioni e non corrazzati e ossuti come le cavallette dei prati di Ronco. In breve Amilcare riuscì a farla passare viva nell’esofago ( canarüz ) e il problema sembrava risolto. Dopo alcuni minuti mia nonna sentì che Amilcare rideva come un pazzo. Si era tolto la camicia e la maglia di lana che aveva appeso ad un sorbo e sembrava appena inamidata dal sudore . Correva avanti e indietro a torso nudo ridendo mentre si grattava e batteva lo sterno peloso come un orso. La nonna gli chiese : “Amilcare, cosa hai da ridere come un matto ? ( Amilcare ché- ghét a dòs de grìgna cùma ‘n màt “? ) . Con riso da burattino bergamasco ( giupìi de Bèrghem) rispose : “ ho ingoiato una cavalletta viva , era nella caraffa del vino che mi hai portato. La sento muovere nello stomaco e mi fa il solletico da matti che non ne posso più, Verginia la ma fa gasciùl, per piasè giütum sedenò vegnì màtt “. La nonna rispose : “ Bè , matto sei già , ma raccontano che si può morire di solletico se il solletico ti perseguita per ore” Mia nonna prese a massaggiargli lo sterno poi gridò : “ . Madòna, signur vèta, vèta, adès la védi a mì”. L’hai nello stomaco e sembri una donna incinta con il bambino che sgambetta nel grembo ” .

 

Il povero Amilcare , che poco sapeva di anatomia umana era agitato poiché pensava che la grossa cavalletta potesse finire, proseguendo la sua discesa nella sua “ borsa” aumentandogli così il solletico così come aveva avuto alcuni anni addietro nella sua visita militare a Sondrio . La nonna conoscendo Amilcare sin dalla nascita ricordò che lui beveva solo vino e rigettava l’acqua. Si ricordò che al battesimo di Amilcare in S. Martino quando il prete gli asperse l’acqua santa sul capo, due gocce caddero tra le labbra dell’infante. Subito dette in smanie e rigettò il latte che aveva poppato sul viso del prete da farlo sembrare una pizza margherita. Quindi la nonna consigliò ad Amilcare una bella tisana di fiori di tiglio delle piante di Ronco per sedare il coleottero nello stomaco e per impedire che continuasse il suo cammino verso le parti basse. In dieci minuti la tisana fu pronta. Amilcare la bevve nella caraffa del vino e come suo vizio la bevve in un sorso. Come aveva previsto la nonna, lo stomaco di Amilcare dette in un rigetto , che chiamar eruttivo è dir poco , espellendo oltre a quello che aveva bevuto anche la cavalletta che sedata dalla tisana di tiglio finì quieta, quieta sull’erba e fu pasto per la gallina. Come tutte le donne, la nonna faticò a tener segreto l’accaduto, e così tutti i “viciurin” della zona seppero il fatto. La cosa passò di bocca in bocca ai “ viciurin “ e tutte le volte che lo vedevano con la “priàla” gli sorridevano con viso da sornione. Alcuni mesi dopo il fatto , Amilcare fece un sogno, che a suo dire, fu delizioso. Sognò mia nonna Verginia e ricordò che nel giorno della cavalletta ingoiata gli aveva detto “Sembri una donna incinta con il bambino che sgambetta. ”

 

Però nel sogno la cavalletta era scesa nella pancia e con le sue ossute ali sgambettava da togliergli il fiato. Quel sogno lo raccontò alla sua amica Celesta che, nostrana psicologa e studiosa di Sigmund Freud, mi disse che il sogno era sintomo inconscio di desiderio di paternità. Fu così che sposò la furba Celesta e mise giudizio.

 

Ezio (Méngu)

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