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Il tribunale della propria coscienza

CULTURA E SPETTACOLO - 14 11 2017 - Méngu

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Chi non si è mai sentito condannato dal “tribunale della propria coscienza” alzi la mano. Le condanne di questo tribunale non vanno in prescrizione ma rimangono incollate alla nostra coscienza come una sanguisuga. Anche se andiamo dal prete a confessarle, non le distoglie con una assoluzione. Semmai il prete placa l’angoscia dell’anima  e il rimorso della coscienza dicendo, per nostra consolazione, che Dio perdona, ma ricorda le nostre malefatte. Per cancellarle completamente, per sbiancare la nostra coscienza, si dovrà rimediare il male fatto con il bene che ora dovremo necessariamente fare. Questo è l’unico modo per pagare i nostri debiti.

 

Insomma in noi, c’è  un tribunale interiore che ci giudica, che parla con voce flebile ma tagliente come una katana.  Chi è privo di questo tribunale interiore è simile a una bestia che non ha l’anima ma solo l’istinto della sopravvivenza. Le bestie sono giustificate poiché non sanno di essere, noi no. Un giovane teologo, poi diventato papa scriveva: “Al di sopra del papa, come espressione del diritto vincolante dell’autorità ecclesiastica, sta ancora la coscienza individuale, alla quale prima di tutto bisogna ubbidire, in caso di necessità anche contro l’ingiunzione dell’autorità ecclesiastica”. Dalle parole del teologo Ratzinger si deduce che contro una sentenza della nostra coscienza non v’è appello, occorre seguire il comando e basta.

 

Dalla coscienza può giungere anche il male?   No, perché la coscienza dell’uomo porta sempre al bene, rifugge il male, parla con la voce del cuore. La coscienza è un po’ il tabernacolo dell’uomo, dove si trovano innati i più intimi e alti sentimenti di bontà, dove si può sentire nei momenti bui la voce del Dio dai molti nomi. Il giudizio della coscienza viene dalla ragione, dall’intelletto  dell’uomo sapiens-sapiens che è in grado di distinguere il bene dal male. Da come parla la nostra coscienza in ognuno di noi si rispecchia la propria personalità, la propria vita, il sentire del proprio Dio. Essere incoscienti significa quindi non possedere alcun riferimento al bene, al desiderio di giustizia e di amore. Chi imbavaglia la propria coscienza per farla tacere si illude. Vi potrà essere  un periodo di quiescenza ma poi il giudizio della coscienza, come un tarlo, sbucherà dal nostro cuore.

 

Pensiamo all’Innominato dei “Promessi Sposi“. Quell’uomo, per tutta la sua vita, aveva commesso delitti e soprusi d’ogni genere, poi un bel giorno il “tarlo”  del rimorso è penetrato nel cuore, nella sua coscienza, nella sua mente. Dapprima si è posto delle domande che il turbamento interiore gli poneva, poi ha trovato inquietudine, smarrimento, infine si è abbandonato alla  consolazione del pianto e al desiderio di riscattare le sue colpe con il bene e con l’amore, parole che a lui erano sconosciute. La coscienza, se ascoltata, detta la rotta da seguire nelle inevitabili scelte da intraprendere nella vita.

 

C’è da chiedersi allora come tanti politici, finanzieri, trafficanti d’armi, mafiosi, e via dicendo possano vivere malgrado il loro “tribunale interiore “ li condanni continuamente. E’ probabile che in loro non esiste una coscienza morale che possa percepire la legge universale divina. La  coscienza non può portare ad uccidere nel nome della  religione, rendere schiavi della povertà la gente poiché significa  uccidere la libertà dell’uomo e il primato del bene. Chi ascolta il tribunale della propria coscienza diventa sacerdote per sé e per gli altri.

 

Méngu

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