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La macellazione del maiale nelle famiglie contadine

CULTURA E SPETTACOLO - 27 12 2018 - Ivan Bormolini

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I piaceri della becarìa

Voglio concludere questa breve carrellata di notizie sulle famiglie contadine tiranesi e valtellinesi di un tempo, con una tradizione o rito ormai perso nei tempi. Fino a qualche tempo fa era usanza macellare il maiale in casa, ovvero “cupà e fa su 'l ciùn”.

 

Per la stragrande maggioranza delle famiglie, la carne ricavata dalla macellazione del suino, era l'unica che si poteva avere a disposizione durante l'anno. Nei tempi più recenti invece, con l'arrivo di un maggior benessere economico, pur conservando questa storica tradizione oggi ormai sciamata, alle carni di maiale se ne erano aggiunte altre soprattutto di origine bovina.

 

Ma torniamo al maiale macellato in casa. L'animale veniva allevato con grande passione ed infinita dedizione dalla moglie del contadino, spettava a lei questo compito come stabiliva una regola mai scritta ma che si è tramandata di generazione in generazione. La “culùbia” o “culùbgia”, in dialetto di Baruffini, era il pasto del maiale, preparato con sapienza dalla stessa casalinga.

In un grosso calderone di rame appeso ad una robusta catena posta in un ampio camino, si metteva un po' di tutto, verdure, frutti e farine o “farineta” e crusca, poi con l'aggiunta di acqua si portava ad ebollizione il tutto, era il rito del “fac bùi al ciùn”. Lo si faceva in giorni prestabiliti dal calendario contadino, in tal modo per la settimana si aveva il mangiare del suino pronto e poi il tutto si ripeteva.

La mattina presto e la sera, la moglie del contadino prelevava dal calderone una certa quantità di “culùbia” e la metteva nel contenitore da cui il maiale si cibava, il così detto “sciùsch”, ovvero la mangiatoia del suino.

 

La data della macellazione ovvero “la becarìa”, veniva stabilita con il macellaio di fiducia direttamente dal contadino in un tempo che andava dalla metà di dicembre sino agli inizi di febbraio.

Il macellaio detto anche “bechèe”, che normalmente durante il resto dell'anno svolgeva un'altra professione, aveva fatto il tirocinio da giovane, seguendo le orme del padre o di qualche conoscente, la sua formazione durava circa due o tre inverni passando con il suo maestro di casa in casa ed imparando l'arte della macellazione.

Questo macellaio rurale disponeva di tutti i mezzi necessari per il rito delle macellazione, coltelli, sega, tritacarne e macchina insaccatrice.

 

'L bechèe doveva conoscere, grazie alla pratica acquisita, l'anatomia degli animali ed i vari metodi di lavorazione e conservazioni della carne. Egli si trasformava in una persona di estrema fiducia e dal suo lavoro dipendeva la buona riuscita del tutto, ovvero carni ed insaccati da consumare durante l'anno.

Risparmio qui alcuni momenti inerenti all'uccisione del suino che avveniva un giorno o due prima rispetto al rito della lavorazione e insaccatura delle carni.

 

Venivano prelevate immediatamente le frattaglie, ovvero cuore, fegato, milza, reni e polmoni. Queste parti, diremmo oggi meno nobili, venivano consumate nei due o tre giorni seguenti. A seconda delle esigenze o dei gusti del contadino, veniva lascato da parte un pezzo di fegato destinato alla confezione di mortadelle di fegato.

I metodi di cucinare queste frattaglie erano diversi: il cuore era ottimo per una minestra “de ris e cor”, il cervello veniva impastato con pane grattuggiato e uovo e poi fritto sotto forma di polpette.

Fegato e polmone, tagliati a pezzetti o listarelle, erano fritti con abbondante cipolla ed erano gli ingredienti principali per la “pulenta e fritura”.

Anche il rene o “rugnun”, veniva cotto e trifolato con del prezzemolo. Immancabili, anche per la loro difficile conservazione, erano le ossa del maiale che avevano attacato ancora un po' di carne.

Queste venivano bollite in una grande pentola e servite assieme ad abbondanti patate lessate.

 

Nei miei ricordi di bambino, essendo di origine contadina, ricordo bene questi pranzi. Detestavo come oggi le frattaglie, ma le patate e ossa erano una pietanza che ho sempre gustato con estremo piacere.

Altro piatto che ricordo con acquolina in gola era la “verzada”, le mie due nonne oltre all'abbondante verza, ci mettevano la codina del suino, le zampe e pezzi di cotenna. Cotture che richiedevano ore di pazienza e tanta legna da mettere in quelle vecchie fornelle dette un tempo economiche.

E' proprio vero, pensandoci anni dopo, del maiale davvero non si buttava proprio niente, nulla andava sprecato e tutto arricchiva la tavola.

 

Tornando alla giornata del confezionamento degli insaccati, tutto iniziava molto presto. Appena terminata la mungitura e la foraggiatura dei bovini.

Il macellaio, auitato dal contadino e dai famigliari, grandi e piccoli, selezionava le carni e le cotenne, nel frattempo la moglie cuoceva il sangue con qualche pezzo di lardo per farne poi le salsicce di sangue.

Quello del macellaio e degli aiutanti era un lavoro lungo, se consideriamo anche l'aggiunta di pezzi di carne bovina che dovevano essere selezionate e mischiate con le carni di suino.

Si arrivava così al mezzogiorno, ed era usanza che il macellaio pranzasse con i famigliari a cui prestava la sua sapienza o arte della macellazione.

Tutto si svolgeva in modo abbastanza veloce, nel pomeriggio si doveva dar vita alla macinatura delle carni, differente per i vari insaccati sia per ingredienti che per diametro del macinato.

Una volta macinato il tutto, i vari composti venivano messi in altrettanti recipineti per la successiva insaccatura in budello.

Tutti questi macinati, erano arricchiti con del vino, aglio, sale e pepe e spezie aromatiche, aggiunti in base al peso della carne e rimischiati nouvamente.

 

Di norma si partiva con l'insaccare quelle che venivano definite parti meno pregiate, ma a dirla ai giorni nostri davvero buone ed eccellenti. Era il turno dei “cudeghin o cudegot”, differenti tra loro solo per il diametro del budello. Si passava poi, al “salam de testa”, oggi un salume ormai scordato fatto con la cute del muso del maiale, ed il grasso sottostante.

Si procedeva poi all'insaccatura delle parti nobili, le salsicce ed i salami. In merito al salame, si presteva sempre la massima attenzione al “culari” detto anche salame del battesimo. Questo era insaccato nella parte terminale dell'intestino e quindi era più grosso rispetto agli altri. Anche durante la stagionatura nei mesi seguenti, un particolare occhio lo si dava a questo salume, aperto proprio in occasione di un battesimo in famiglia.

Infine si insaccavano le salsicce di sangue, così la giornata dura ma producente volgeva al termine.

Una volta lavato per bene tutti gli strumenti usati e il luogo dov'era avvenita la “becarìa”, si contrallava di nuovo tutto il prodotto che di dopo una prima asciugatura veniva disposto su stecche per la successiva stagionatura.

Prima della cena, un'ultima cosa da fare, spettava al macellaio. In un grosso recipiente collocava le coppe, pancette, una parte del lardo ed i prosciutti, aggiustandoli di sale, pepe e aromi. Solo qualche tempo dopo, sarebbe ritornato per confezionarli e predisporli alla stagionatura, “ fa su la roba grosa del ciùn”.

 

Siamo alla cena dunque, una bella tavalota in famiglia cui non mancava il macellaio. Polenta taragna, salsicce, salsicce di sangue e cotechino appena prodotti erano alimenti immancabili che portavano a concludere una giornata importante che per le famiglie contadine era una festa.

Prima di congedare il macellaio e i famigliari che avevano dato una mano il contadino dava loro un paio di salsicce, di prima e di sangue ed un cotechino da mangiarsi il giorno successivo ovvero i “tastarooi”.

Oltre a predisporre la stagionatura, che era un processo da segiure con molta attenzione giorno dopo giorno, al fine di non rovinare irrimediabilmente salami, salsicce, pregiati prosciutti e pancette, si preparava lo strutto derivato dal lardo del maiale. Un elemento importantissimo che avrebbe costituito un ottimo condimento per quasi tutte le vivande.

Oltre a mie vecchie esperienze personali di bambino, ho tratto qualche spunto dagli scritti del Dottor Domenico Corvi, che anni fa aveva ricordato queste tradizioni.

 

Ivan Bormolini

 

Fonte: Il Tiranese numero 5 gennaio febbraio marzo aprile 1977. Cooperativa Editrice Tiranese stampa Tipografia Bonazzi Sondrio. Le foto sono di Ivan Bormolini dalla sua collezione.

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