Vietato farsi trascinare dal filocarro
CULTURA E SPETTACOLO - 14 12 2021 - Ezio (Méngu)
Ho il braccio destro leggermente storto a causa d’ una brutta caduta con una bicicletta nera, marca Bianchi, freno a bacchetta, anno 1955. Posso dire però “mea culpa “. Vi racconto il perché, poiché sono sicuro che alcuni della mia età hanno avuto non il braccio, ma anche la testa rotta. Gran parte della gioventù tiranese, negli anni ’50, sapeva che era vietato farsi trascinare dai filocarri che numerosi e distanziati di circa mezz’ ora l’un l’altro dalla stazione ferroviaria di Tirano raggiungevano, lenti ma possenti, i luoghi dove vi erano in costruzione le opere idroelettriche della società A.E. M. quali dighe e centrali. Occorreva tanto cemento e gli ingegneri di quel tempo, intelligentemente hanno avuto l’idea di costruire una linea elettrica per filocarri proprio sulla strada statale che da Tirano giunge sino a Bormio per raggiungere poi gli impianti dell’alta Valle. Vale la pena di ricordare alcune cosette di quest’opera, poiché sono quasi certo che molti anziani tiranesi l’hanno messa nel loro dimenticatoio, mentre la gioventù la ignorano e sarebbe buona cosa che la studiassero come opera d’alta ingegneria di un passato intelligente che sta per rinnovarsi ( trasporto elettrico ). Se volete vedere ancora un piccolo resto dell’opera andate sulla statale del Campone. Vedrete a lato strada verso montagna dei pali in cemento. Quei possenti pali erano i portatori della linea elettrica bifilare della filovia, ora adibiti alla illuminazione dello stradone. Sicuro di non annoiare, rammento alcuni particolari essenziali di quell’opera. La Filovia Tirano – Tre Baracche era lunga ben 46 chilometri e si sviluppava lungo la statale dello Stelvio. Fu realizzata dall’A.E.M. di Milano negli anni 1939- 1940, partendo da Tirano situato a 428 m.s.l.m. sino a raggiungere i 1950 m.s.l.m. per la costruzione della diga di San Giacomo. Lo scopo principale era quello di trasportare il cemento e anche i pesanti materiali per le opere e per i cantieri. Il trasporto del cemento era stato ideato con tre sistemi diversi. Il primo tramite la ferrovia, dal luogo di produzione del cemento sino a raggiungere Tirano. Il secondo usando possenti filocarri che da Tirano raggiungevano il posto di deposito in alta Valle. Il terzo con delle teleferiche per trasferire il cemento dal deposito ai cantieri. Con questo sistema si raggiunsero i cantieri di S. Giacomo con una incredibile strada di montagna non asfaltata e lunga quasi 20 chilometri con 21 tornanti. Negli anni seguenti la filovia servì per gli impianti della Diga di Cancano ( anni 1954-1956), Con la conclusione dei cantieri dell’A.E.M. di Milano la filovia cessò il suo servizio. I filocarri erano macchine che potevano trasportare 14 bidoni di cemento del peso di 400 kg l’uno. Venivano caricati con un interessante sistema a scorrimento su binarietti che dai vagoni ferroviari si allineavano con facilità sul pianale del filocarro. Di questi filocarri ve ne erano 16. Vi erano poi i filotrattori per il trasporto dei carichi pesanti e anche due filobus per il trasporto degli operai sui cantieri. A conclusione di questo piccolo intermezzo tecnico, ora racconto la mia avventura anche se molti suppergiù della mia età potrebbero scrivere dei libri sulle cose successe su quella storica filovia. Era un caldo pomeriggio d’agosto del ’50. Mio padre era di “ riposo “ dal lavoro, come manovale a Cancano e la sua bicicletta nera Bianchi in quei momenti la prendevo io di straforo. Così era stato anche per l’amico Luciano. La giornata era afosa e così decidemmo di fare il bagno in una pozza della Diga di Sernio. Avevamo le biciclette ma il pensiero di farci la “ràta “( salita ) del Campone in sella non ci andava. Non era la prima volta che vedevamo giovanotti che andavano a lavorare nei cantieri di Lovero e Grosio aspettare il filocarro che passava sullo stradone accanto al Büi Vècc e… zach in sella alle loro biciclette con la mano lesta si agganciavano a uno dei bidoni di cemento e si facevano trascinare dal filocarro sino al ponte di Sernio. L’autista, con la guida a destra, li vedeva dallo specchietto retrovisore agganciarsi sul retro ma chiudeva un occhio poiché sapeva che andavano al lavoro e con una certa delicatezza di manovella rallentava il filocarro per agevolare il loro aggancio. Però quando vedeva qualche ragazzo agganciarsi sul retro l’autista del filocarro andava in bestia e gridava dal finestrino di sganciarsi immediatamente dal cassone. Io e Luciano sapevamo il trucco infallibile per non farsi vedere sul retro del filocarro tenuto d’occhio dall’autista con lo specchietto retrovisore. Ci agganciavamo nella mezzeria del cassone in modo tale che non ci poteva vedere. Ci agganciavamo non con la mano, ma con una “gianèta” ( bastone manico curvo ) con la mano sinistra, mentre la mano destra la tenevamo sul manubrio della bicicletta. Finito il traino sulla “ràta” del Campone, presso il ponte di Sernio, ci sganciavamo poiché subito dopo iniziava la discesa. Quel giorno abbiamo aspettato il filocarro accanto alla torre Torelli. All’arrivo, lesti come Ringo in sella alle nostre due Bianchi e con la “gianéta” tesa, ci siamo agganciati ai ferri dei bidoni di cemento sul cassone del filocarro, proprio a metà cassone in modo che l’autista non ci potesse vedere. E fu così, poiché il filocarro saliva la “ ràta “ del Campone veloce e potente come un drago mentre l’autista lavorava di manovella sul cruscotto per aumentare la velocità. Non so dirvi se quell’autista quel giorno era particolarmente “ gasàa “ ( eccitato ) ma filava come un matto, probabilmente sentendosi fratello di Nuvolari ( pilota dei miei tempi felici ), Si sentivano le corna del filobus che strisciavano sui fili modulando una musica simile ad una sinfonia di Beethoven. Luciano diceva che quella sinfonia era in “ sì bée dür ! “ ( vigore della gioventù della contrada di S. Maria ! ). Giunti al ponte di Sernio la nostra fatica di farci trascinare era finita e dovevamo sganciarci dal cassone prima che quel “parente di Nuvolari” prendesse ancor più velocità nella discesa. Così fu per Luciano, ma non per me. La mia “ gianéta “ si era incastrata in un ferro del bidone di cemento e non riuscivo a sfilarla. Luciano gridava: “ mòla la gianèta, mòlela sedenò ta sa cùpet “ ( lascia il bastone sennò ti ammazzi) “ Io non potevo mollare la “gianèta” ricordo del nonno che per me era sacra. Intanto era iniziata la discesa di Sernio. Vedevo la ruota anteriore della mia bicicletta girare e saltare come un grillo perché ero con una sola mano sul manubrio e l’altra attaccata alla “gianéta” e con l’aumentare della velocità perdevo stabilità ogni momento. D’un tratto la ruota anteriore della bicicletta si è posta di traverso e io ho fatto un balzo in avanti. Sono stato sbalzato dalla sella però sono sempre rimasto attaccato al bastone agganciato al cassone. La bicicletta dopo aver piroettato alcune volte sull’asfalto si è fermata a lato della stradone con fracasso. A questo punto l’autista del filocarro si è accorto per il fracasso che qualcosa poteva essere successo. Girò la manetta della velocità sullo zero e fermò il filocarro. Io ho battuto il braccio destro su un ferro del cassone poi ho sganciato la “gianèta” e sono corso accanto alla bicicletta per vedere se si era rotta. Luciano mi raggiunse in un baleno, mentre l’autista del filocarro, fuori dai gangheri e incurante della mia bicicletta, iniziò a sgridarci dicendo “ Non sapete che è vietato farsi trascinare” ? Poi mi domandò se mi era fatto male, ma io da buon contradaiolo di S. Maria, mi misi a ridire, raddrizzai la bicicletta e mi misi in sella. Miracolo, la mia Bianchi, bicicletta da favola, non si era fatta un graffio. L’autista con un ultimo sguardo truce , salì in cabina e poi partì, iniziando la discesa con un sibilo di motori elettrici questa volta con sinfonia in “ si bée mòl “( normale, dopo uno spavento ) . Io e Luciano controllammo bene le nostre biciclette prima di giungere a casa. Nella mia mancava il “capelin” del campanello, con il marchio della Bianchi. A mio padre dissi che me lo avevano rubato per scherzo all’oratorio e che poi me l’avrebbero restituito. In verità l’avevo perso durante quella caduta a Sernio. Dopo sei giorni, io e Luciano sempre agganciati a un filocarro tornammo in quel di Sernio e dopo quasi due ore di ricerche trovammo il “ capelin “ del campanello in un tombino dello stradone. Ricordo che dopo alcuni giorni avevano appeso nella parte posteriore dei Filocarri la scritta “ vietato farsi trascinare “ ma a quei tempi, visto il risultato ottenuto, sembra che pochi sapessero leggere. Ezio (Méngu)
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